La lettera del re del panettone: “Napoli, se non ci fosse bisognerebbe inventarla”
Ago 22, 2018 - Redazione
Napoli – Iginio Massari è conosciuto in tutto il mondo come uno dei migliori pasticcieri italiani. Il maestro bresciano ha vinto tantissimi premi internazionali ed i suoi panettoni vengono ogni anno spediti in ogni angolo della Terra come eccellenza. Dopo un viaggio di lavoro a Napoli, Massari ha pubblicato sulla sua pagina Facebook ufficiale degli “appunti di viaggio”. Una vera e propria lettera d’amore per la nostra città ed il nostro popolo.
Pubblichiamo per intero il post del pasticcere:
“Se non ci fossero, bisognerebbe inventarli; e inventarla. Mi riferisco ai napoletani e a Napoli. Un’altra volta, di ritorno da un seminario, mi sono chiesto se è nata prima la città o prima i suoi abitanti. Potrebbe sembrare una domanda della fattispecie “è nato prima l’uovo o la gallina?”, potrebbe sembrare. Ma la questione sta in questi termini: i napoletani sono fatti così perché vivono su una “bomba”, qual è il Vesuvio, pronta ad esplodere in ogni momento o sono stati loro, i napoletani, geneticamente così vitali, esuberanti, focosi, a trasformare il suolo col loro temperamento?
Insediata su uno dei tre lati di quel triangolo magico che ha per vertici l’inquietante dolcezza virgiliana dei Campi Flegrei, l’operosa vivacità economica e culturale dei centri vesuviani di Pompei ed Ercolano e la distaccata serenità della Capri di Tiberio, Napoli da sempre freme di vita. I secoli, le persone e i pensieri si accavallano disordinatamente e diventa difficile riuscire a mantenere la propria identità in un luogo come questo. Ci si lascia assorbire facilmente dai colori, plasmare dai moti del mare e intontire dalla luce.
Sono convinto che, in un contesto come questo, si possa vivere gioiosamente, così come morire senza particolari nostalgie del proprio luogo d’origine. Ne sanno qualcosa Virgilio e Leopardi, che qui vollero essere sepolti, Boccaccio e Petrarca che da questi luoghi trassero ispirazione e fama, il solito “nomade” Goethe che, nella sua lettera a Herder da Napoli del 17 maggio 1787 scriveva che qui, prima volta per lui, l’Odissea era una parola vivente.
Un’ odissea, proprio, che si alternò tra fuoco e mare per due sorrentini veraci quali Giordano Bruno (Bruno in realtà era di Nola, ndr) e Torquato Tasso: forse le due più genuine espressioni dello spirito campano; l’uno tutto fuoco e fiamma, come il Vesuvio, l’altro ondeggiante tra voluttuose fantasie e malinconiche riflessioni. Come il confronto fra…un babà e una zeppola! (mi si perdoni il paragone in nome di una filosofia un po’ “giocosa”). Entrambi dolci di antiche origini, nobile il primo, più popolare la seconda, entrambi soffici, il babà è una sfida estrema dell’equilibrio: da queste parti si dice che una goccia di rum è poco e due sono troppe, c’è il rischio che “infiammi”. Con la zeppola, invece, non si corrono di questi rischi, ma si può soffrire di nostalgia: guarnita da un po’ di crema e da una rossa amarena imbevuta di sciroppo, e gustata in un sol boccone come tradizione vuole, non si fa in tempo ad assaporarne la morbida sensualità che già si accusa la malinconia per la brevità del piacere. Non è effimera anche l’esistenza?
Al di là di queste mie modeste riflessioni, ho sempre pensato comunque che visitare una città, viverla, comprenderla attraverso i suoi spazi, la sua gente, le sue mostre e manifestazioni, i suoi monumenti, sia il fine di un viaggio. Ma come si fa a comprendere Napoli quando, a ogni passo, s’incontra qualcosa di interessante e diverso, quando la si può guardare in tanti modi e ci si trova sempre di fronte a una complessità sfuggente a cui si vorrebbe dare un nome? Bisognerebbe disporre di una chiave, una possibilità di interpretazione per rendere omogenee tutte le diversità: sarebbe come dire illuminante. Mi è successo, per la verità, una volta, complice una “piramide” di struffoli.
In questo piatto, infatti, la geografia e la fisionomia della dolceria natalizia ereditano suggestioni, fantasie, influenze e colori mediterranei per aprirsi in una proposta originale che sembra tener conto del bello e del piacere. In questo piatto sembra rivivere l’inventiva e la gioiosità tutta napoletana: una piramide di irregolari palline di pasta legate con zucchero, miele, frutta candita spezzettata e profumata con l’acqua di fior d’arancio e l’acqua di mille fiori, fritte in strutto ed impilate una sull’altra a far l’effetto di una montagnola di golosità vivacizzata dai “diavulilli”, cilindretti multicolori di confetto dai poteri -dicevano- rinvigorenti. Concludono la decorazione le ciliegine di frutta candite, verdi e rosse. Una piramide informe, senza nulla della geometria egizia, per carità; anzi, pronta, senza alcun preavviso, a rovesciarsi in una “lavica densità” per via del miele. Dolce instabile, imperfetto, ma certamente generoso, perfino ridondante.Come il barocco che, a Napoli, par quasi che vi sbocchi per germinazione spontanea, tanto è pronta l’adesione e rapido lo sviluppo; tanto esso, con la sfarzosa decorazione, risponda pienamente all’indole del popolo partenopeo, solare e bizzarro.
Mi ricordo spesso, con piacere, di un aneddoto successo parecchi anni or sono ad un mio amico, turista a Napoli. Se ne stava, dopo aver abbondantemente pranzato, a godersi l’impagabile spettacolo del sole che si riflette in lontananza nelle onde del mare, in quella parte della città dove si respira l’aria “addurosa” posillipina. Vicino al suo tavolo due straniere chiesero il conto, che arrivò scritto in biro sul classico blocchetto notes a quadretti. Lo lessero, discussero un po’ fra loro, poi fecero cenno al cameriere: non riuscivano a capire la sigla a margine del foglietto “S.L.V.” £.1000. Lui le guardò, abbozzò uno di quegli sguardi scanzonati e tristi alla Totò (principe Antonio de Curtis per l’anagrafe: un altro modo tutto partenopeo di giocarsi la vita!) e poi spiegò:
-Vuol dire: “SE LA VA”!…ma non è andata…chiedo scusa-. Le donne sorrisero e pagarono anche quelle 1000lire, trattenendo il foglietto a ricordo e simbolo dell’arguzia napoletana. D’altronde, questa è anche la patria di Pulcinella, perennemente affamato e pieno di risorse.
Ma, trascurando questo episodio, non bisogna dimenticare quanto estro e cordialità siano doti importanti per i ristoratori napoletani ai quali, più che a molti altri, spetta il difficile compito di ricomporre ogni giorno, nella mensa comune, l’umanità del mondo.
A buon diritto fu chiamata la “grande, luminosa e gentil città” dal partenopeo Gian Battista Vico, che ben conosceva i suoi simili: fondamentalmente semplici come i personaggi delle commedie di Eduardo de Filippo, spesso esuberanti come i fuochi di Piedigrotta, ma anche romantici e malinconici come le canzoni (o poesie?) di Salvatore Di Giacomo.
Certo, il mare e il sole con la luna giocano in questa parte della Terra le loro carte migliori. Quel “Marechiaro” il cui movimento rivive nelle volute delle sfogliatelle, quel mare dove “pure li pisce nce fanno l’amore”: linfa vitale come la crema che si cela all’interno di questi piccoli scrigni dalle linee ondulate.
E il sole che abbaglia e stordisce di giorno, tanto da indurre gli uomini ad invocare la luna per la notte, sole e luna rivivono nella rotonda forma della pastiera. Piccolo monumento alla vita, tre ne sono i componenti privilegiati: il grano, simbolo di ricchezza, le uova, emblema della vita, la ricotta, freschissima di bufala , a rappresentare l’abbondanza. E poi, ancora, canditi, cannella, vaniglia, acqua di fior d’arancio, zucchero a velo, … Dolce trionfale, profumato e munifico, si divide in mille “raggi” per accontentare tutti; ne basta poco, infatti, uno spicchio e si è sazi e innamorati….di Napoli!”