Le “case chiuse” di Napoli, vizi e voglie degli italiani di un tempo
Mag 06, 2015 - Domenico Ascione
“Le case che frequentavo erano molto belle e ben arredate e le ragazze straordinarie e sempre molto eleganti. Era come andare a casa di amici, si prendeva il tè e qualche volta si rimaneva a cena. Spesso ci andavo con Aldo Fabrizi, qualche volta con Fellini ma non si andava solo per fare sesso. Erano donne molto spiritose e di grande esperienza”. Questo è quanto dichiarava Alberto Sordi sulle case di tolleranza frequentate da lui e da tanti altri giovani come lui. Non pervertiti, non sfruttatori, solo giovani ragazzi che cercavano i primi piaceri in una Italia che, uscita dalla crisi della guerra, era molto più aperta a qualche “vizietto”. Non c’era vergogna a frequentare quegli ambienti bene arredati e curati, a gettare qualche lira fra vino e carezze spinte, per la morale del tempo era giusto, ordinario e naturale.
Come poteva essere altrimenti, visto che lo stesso Stato gestiva le così dette “marchette”? Certo, non mancavano i controlli e i regolamenti per garantire la sicurezza delle ragazze e la tranquillità dei clienti: ovunque sorgevano cartelli che vietavano di “molestare o infastidire le ragazze”, tariffari che offrivano l’aggiunta di bidet caldi, acqua di colonia e asciugamani di seta con l’aggiunta di pochi spiccioli al prezzo base. Un mercato che, per quanto impensabile, rispecchiava vizi, virtù e bisogni degli italiani del tempo. E allora si può giustificare anche che una “casa chiusa” si fregiasse di poter offrire la rarità di una “ragazza di colore” e si possono anche capire gli inviti a non richiedere sconti. Una normalità diversa dalla nostra, che non possiamo condannare.
Napoli, vuoi per l’occupazione americana, vuoi per la fame sofferta nel dopoguerra, fu una delle città più floride di case di tolleranza: fino al 1958 se ne contavano almeno 900. Dai Quartieri Spagnoli a via Chiaia si estendeva uno dei più grandi quartieri a luci rosse che l’Europa abbia mai visto. In vico Sergente Maggiore sorgeva uno tra i casini più frequentati e si dice addirittura che la maitresse era disposta ad anticipare al telefono le fantasie che le signorine avrebbero offerto ai visitatori. Su vico Sant´Anna di Palazzo al n. 3 sorgeva lo storico “La Suprema”, l´attuale Chiaja Hotel De Charme dove i facoltosi clienti attendevano Nanninella a´spagnola, Mimì d´‘o Vesuvio, Anastasia ‘a friulana e Dorina da Sorrento.
Alla casa di tolleranza nell´attuale piazzetta Matilde Serao facevano tappa fissa numerosi giornalisti. Gli squattrinati invece andavano a Montesanto nella “casa delle tre vecchiarelle”, signore molto mature che regalavano “gioie” per pochi soldi. A via Chiaia c’erano le case per politici e intellettuali che potevano permettersi anche un’ora di compagnia, a Parco Comola Ricci l’Internazionale per i militari dove anche le prostitute spesso erano straniere. I bordelli per le classi popolari si trovavano ai Quartieri Spagnoli dove per poche lire si otteneva un quarto d’ora d’amore. Insomma Napoli offriva piaceri per tutti i gusti e per tutte le tasche.
La sentarice socialista Lina Merlin impiegò dieci anni per far abolire “la prostituzione di Stato”. Il fenomeno delle case chiuse nel 1958 era già in fase di declino: nel 1891 erano 10.439 i postriboli; nel 1949 scendevano a 750, con 3500 prostitute; nel 1958, prima che le “persiane venissero chiuse definitivamente”, le case di tolleranza in Italia erano diventate 560, con 2.700 donne che ci lavoravano. Insomma, come disse Totò in un film del tempo:“E lo volete un consiglio, militari e civili, piantatela con questa nostalgia! Oltre che incivili, è inutile! Ormai li hanno chiusi! A voi italiani è rimasto questo chiodo, fisso qui. Toglietevelo! Ormai li hanno chiusi! Arrangiatevi!”