A cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta a Napoli (e in molte altre zone d’italia) si ebbe un fenomeno su larga scala che cambiò per sempre il volto della città, lasciando cicatrici di cemento nel suo tessuto urbano.
La speculazione edilizia è un male italiano da tempo immemore: già nell’antica Roma i plebei venivano sistemati in piccoli appartamenti realizzati a bassissimo costo su diversi piani in condizioni igieniche terribili, per sopperire alla mancanza di spazio nel centro dell’antica città.
Negli anni cinquanta-sessanta, in Italia, la guerra è da poco finita ed è momento di ricostruire – gli edifici sono stati danneggiati dai bombardamenti, o distrutti del tutto, ed un enorme afflusso di denaro ha rimpinguato le casse degli italiani, portandoli ad investire sull’immobiliare. Le amministrazioni comunali fanno fatica a gestire le richieste di realizzazione di nuovi edifici e a tale scopo elaborano i nuovi Piani Regolatori per convertire aree ad uso agricolo in terreni edificabili.
Il fenomeno che viene fuori da questo processo (sfruttato da imprenditori con immensi fondi economici) è detto speculazione edilizia. Il meccanismo è semplice: si comprano a poco immensi lotti di terreni agricoli e si attende che questi vengano convertiti (anche grazie alle validissime argomentazioni degli speculatori e a “pressioni esterne”) in terreni edificabili ad uso edilizio, permettendo agli speculatori di lucrare sulla differenza di valore.
Napoli non fu risparmiata da questo processo, la legge sulla Ricostruzione del 1947 dette inizio ad un mercato nero dei così detti “diritti di ricostruzione” acquistati dagli speculatori per ammassare opere di edilizia privata, senza lasciar spazio al verde pubblico, che divenne incredibilmente raro a Napoli. La speculazione edilizia provocò l’allargamento selvaggio di zone altamente ghettizzanti (quali Secondigliano e La Loggetta), distanti e mal collegate con il centro, prive di una propria entità. Napoli divenne l’ammasso urbano che oggi conosciamo, con un flusso di pendolari che si spostano da zone periferiche, talvolta degradate, verso il centro storico, unico polo commerciale dell’intera città metropolitana.
Di questo processo, cui Napoli fu protagonista, ne parlò Francesco Rosi nel celebre film “Le mani sulla città”. Sullo sfondo dell’iconica locandina del film, Rosi fece mettere una foto aerea del simbolo della speculazione edilizia a Napoli: il Vomero.
Il Vomero, da quartiere residenziale di villette Liberty con giardino, si trasformò anch’esso in un ammasso informe di cemento – sulla collina, di origini propriamente agricole, fu eseguita un’operazione in larga scala di edilizia popolare, dando vita a “mostri” urbanistici come la celebre “Muraglia Cinese” (8 fabbricati senza soluzione di continuità con altezze fino a 16 piani che da via Belvedere arrivano a lambire quasi via Aniello Falcone costeggiando via Kagoshima e via Ricci. [1]) che pare, tra l’altro, sia visibile dallo spazio per la mole di massa edificata sovrapposta.
Esempi simili non mancano in altre zone d’Italia, ma che Rosi abbia scelto Napoli come set per il suo film lascia intendere quanto pressante fosse questo fenomeno negli anni sessanta nella città partenopea, a cui venne negato parte del suo panorama anche per colpa di questa oppressiva cementificazione attuata durante il così detto “sacco di Napoli“, di cui oggi, in termini di vivibilità, paghiamo le conseguenze.
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