Vico rotto al Lavinaio, vico Colonne al Lavinaio e vico Ferze al Lavinaio. Non una ma ben tre stradicciole, contigue e tutte ubicate nei pressi di Piazza Mercato (quartiere Pendino), lungo l’antica cinta muraria costruita per volere degli Aragonesi sotto la direzione di Francesco Giorgio Martino nel 1484. Data talmente antica da aver visto, nel corso del tempo, cambiare addirittura il significato del termine “Lavinaio”.
Già, perché contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, esso non ha nulla a che vedere con le eruzioni vulcaniche del Vesuvio. Lavinaio si rifà, invece, al termine “lava”, che anticamente indicava un poderoso effluvio di acqua e fango che molto spesso interessava la zona in questione. La stessa, infatti, è abbarbicata a metà tra la collina antistante e il mare, dove sfociavano proprio questi torrenti pluviali.
Già con l’espansione di epoca angioina (nel Trecento), gli edifici seguivano l’andamento delle mura medievali contigue alla strada del Lavinaio, il fossato angioino dove si incanalavano i torrenti d’acqua piovana (in dialetto appunto “lave”) destinati alla spiaggia all’altezza del Carmine.
Quando poi nel 1484 l’intera area venne annessa alle mura aragonesi, le acque furono deviate all’Arenaccia, per fare posto nel limite meridionale al castello del Carmine, quarta fortezza cittadina, commissionato da Carlo III di Durazzo (1386) e demolito (sopravvivono tracce di mura e due torri) nel 1906.
Lavinaio, dunque, indica lo scorrere abbondante dell’acqua. Solo dopo l’eruzione effusiva del 1737 con “lava” si cominciò ad indicare anche lo scorrere tumultuoso di roccia fusa e gas fuoriuscito dal Vesuvio.
Secondo alcune fonti, inoltre, ‘o Lavenaro sarebbe stato il punto di partenza della diffusione della peste, che colpì tragicamente Napoli nel 1656. La malattia sarebbe stata portata nella città campane da alcuni topi giunti alle falde del Vesuvio a bordo di nave provenienti dalla Sardegna ed il primo ad esserne infettato sarebbe stato proprio un giovane di vico Lavinaio, il quale lavorava proprio alla dogana del porto di Napoli. Lo stesso, rincasato nella sua abitazione, sarebbe morto nel giro di ventiquattro ore, infettando anche la madre.
Proprio quest’ultima fu l’autrice (probabilmente involontaria) di un gesto che aiutò certamente la diffusione della peste: prima di passare anch’ella a miglior vita, infatti, per pagare il fitto di casa impegnò alcuni beni, tra cui il letto del figlio appestato.