Il Placito di Capua è un atto giudiziario redatto nel 960 d.C., poiché, nell’area tra la Campania e il Lazio meridionale, dopo gli sconvolgimenti sociali ed economici conseguenti alle invasioni dei Saraceni, i grandi centri monastici vollero riordinare l’amministrazione dei loro beni, cercando di rientrare in possesso anche dei loro territori che gli erano stati usurpati.
Secondo quanto afferma l’Accademia della Crusca, vennero dunque fatte delle cause, nelle quali i monasteri facevano dichiarare, con giuramento da testimoni del luogo, che i territori erano stati in precedenza, per lungo tempo (almeno 30 anni), posseduti dal monastero che li rivendicava.
Una di queste cause riguardò una vastissima area di circa 20.000 ettari, l’abbazia di Montecassino, fondata da San Benedetto, che un certo Rodelgrimo d’Aquino voleva recuperare dalle mani dell’usurpatore.
Probabilmente, proprio l’importanza del caso indusse il giudice Arechisi (di stirpe longobarda) a fare registrare le dichiarazioni dei testimoni nelle forme della loro lingua volgare.
Il giudice, dopo aver ascoltato le dichiarazioni delle parti, predispose lui stesso la formula di giuramento con parole esatte, che non lasciassero dubbi a chiunque avrebbe poi letto l’atto.
I tre testimoni, che deposero a favore dei Benedettini, la recitarono uno alla volta e il notaio che stese l’atto, la riportò per tre volte fedelmente nel testo della sentenza.
Qui di seguito riportiamo l’edizione di Castellani e la traduzione di Roncaglia, tratte dal libro “La lingua italiana. Storia, testi, strumenti” di Claudio Marazzini:
“Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte S(an)c(t)i Benedicti“.
“So che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, trent’anni le ha tenute in possesso l’amministrazione patrimoniale di San Benedetto“.
Placito di Sessa Aurunca, marzo 963: “Sao cco kelle terre, p(er) kelle fini que tebe monstrai, P(er)goaldi foro, que ki contene, et trenta anni le possette”.
Memoratorium di Teano, luglio 963: “Kella terra, p(er) kelle fini q(ue) bobe monstrai, S(an)c(t)e Marie è, et trenta anni le posset parte S(an)c(t)e Marie”.
Placito di Teano, ottobre 963: “Sao cco kelle terre, p(e)r kelle fini que tebe monstrai, trenta anni le possette parte S(an)c(t)e Marie”.
Come si vede, le formule si assomigliano moltissimo, tanto da far pensare che si possa trattare di una sorta di codificazione giuridica o formalizzazione della lingua parlata.
Tornando al Placito di Capua, esso è uno dei primi testi scritto in lingua volgare che purtroppo però ha perso il suo primato dopo la scoperta del graffito della catacomba di Commodilla, databile tra l’VIII e il IX secolo.
Nel Placito Capuano, il volgare viene utilizzato solo nelle forme in cui compare il discorso diretto, per citare le esatte parole dei testimoni, ma tutto il resto del testo notarile è in latino.
Ciò permette una riflessione sulle differenze tra discorso diretto e narrazione indiretta e sul rapporto tra testo scritto e varietà del parlato.
Che si tratti di parlato è evidente, essendo questa una testimonianza in giudizio; però sulla sua naturalezza e spontaneità ci sarebbe da discutere. Gli studi più moderni ci hanno insegnato che questo parlato apparente ha in realtà un valore molto formale, perché le dichiarazioni dei testimoni si ripetono sempre uguali, come un rituale. Inoltre, l’introduzione della formula non è attribuibile ai testimoni ma al giudice Archesi. Infatti è proprio il giudice a stabilire che, in mancanza di documenti, la prova sia affidata a testimonianze orali, le quali saranno rese mediante formula stabilita (la formula volgare), confermata con il giuramento.
Si è discusso a lungo anche sul fatto che questa lingua parlata sia stata sottoposta a un filtraggio attraverso le abitudini grafiche latine, essendoci nel testo molti latinismi.