Muhammad Ali all’ombra del Vesuvio. È l’ennesimo capolavoro di Jorit, l’artista napoletano che con le sue opere sta cambiando il volto della città, apprezzato non solo a Napoli ma in tutto il mondo: i suoi murales si trovano in diverse nazioni di Europa, Americhe e Asia e rappresentano personaggi che hanno lottato senza risparmiarsi per i diritti sociali, icone popolari prima di essere sportivi, scrittori, medici, e così via.
Le ultime opere di Jorit erano state quelle raffiguranti il dottor Ascierto dell’ospedale Pascale, in prima linea nella lotta al coronavirus a grazie al quale molte persone stanno guarendo dal virus, e quella raffigurante Socrates, il calciatore medico rivoluzionario.
E rivoluzionario è stato Muhammad Ali, The Greatest, il più grande. Nato come Cassius Clay, si convertì all’Islam e cambiò il proprio il nome da schiavo il giorno dopo essere diventato campione dei pesi massimi combattendo contro Sonny Liston nel 1964. Un incontro nel quale partiva nettamente sfavorito, ma dove dimostrò tutta la sua immensa classe: Liston, che allora era considerato il più formidabile peso massimo mai esistito, abbandonò alla settima ripresa. Ali, cosciente della sua impresa, raggiunse il centro del ring e si mise a urlare “Sono il più grande”: aveva soltanto 22 anni.
Muhammad Ali fino al 1967 difese il titolo per otto volte contro i migliori pugili del tempo, dimostrando una superiorità imbarazzante. Quell’anno, tuttavia, rifiutò di andare a combattere in Vietnam pronunciando una frase che diventerà storica: “I vietcong non mi hanno mai chiamato negro”. In questo modo riaffermò la propria posizione contro il razzismo e contro tutte le guerre, un modo di pensare che gli costò il ritiro della licenza pugilistica per ben tre anni nel pieno della sua carriera. Fu proprio allora che si vide il campione, eccezionale con e senza i guantoni: l’uomo più forte del mondo si era opposto al sistema rinunciando al denaro, scegliendo gli stenti piuttosto che uccidere persone, tenendo fede alle proprie parole, al proprio credo, alle proprie idee.
Il ritorno sul ring non fu semplice, tuttavia Ali riuscì a riprendere i titoli di campione del mondo nell’incontro di pugilato più celebre della storia, The Rumble in the Jungle contro il potentissimo George Foreman, il quale restò così turbato dalla sconfitta da ritirarsi per dieci anni. Ali partiva sfavorito 3 a 1. La gara ebbe luogo a Kinshasa, in Congo, dove il pubblico lo incitava urlando “Ali boma ye”, “Ali uccidilo”: era l’idolo di tutte le persone di colore del mondo, le quali tifavano in questo modo per lui nonostante anche Foreman fosse nero.
Concluse la carriera nel 1981 quando già mostrava i primi sintomi del Parkinson, in realtà manifestatisi già negli ultimi incontri dove era apparso in evidente difficoltà, lento anche nel modo di parlare. Da professionista Muhammad Alì ha disputato 61 incontri, dei quali 56 vinti (37 per KO) e 5 persi (solo uno per KO).
Diverse sono le dichiarazioni di Ali passate alla storia, tra cui la seguente, una delle più belle: ” Impossibile è soltanto un parolone pronunciato da gente misera che trova più facile vivere nel mondo che gli è stato dato piuttosto che esplorare le possibilità che hanno per cambiarlo. Impossibile non è un dato di fatto. Impossibile è un’opinione. Impossibile non è una dichiarazione. È una sfida. Impossibile è un’eventualità. Impossibile è temporaneo. Impossibile è nulla“.