La morfologia e la geologia del territorio partenopeo hanno da sempre favorito l’esistenza di una Napoli sotterranea. I Greci, a partire dal 470 a.C., furono i primi a trasformare il sottosuolo per costruire cisterne adibite alla raccolta di acque piovane. Questi serbatoi erano collegati all’esterno tramite pozzi scavati verticalmente nel terreno. Vi erano poi i pozzi idraulici, diffusi nelle città vesuviane, che servivano ai contadini per misurare la temperatura del Vesuvio. Ne dà testimonianza anche Giacomo Leopardi all’interno de “La ginestra”, composta nel 1836 presso la villa Ferrigni a Torre del Greco:
[…] E se (il contadino) appressar lo vede (la lava), o se nel cupo del domestico pozzo ode mai l’acqua fervendo gorgogliar, desta i figliuoli, desta la moglie in fretta, e via, con quanto di lor cose rapir posson, fuggendo [… ]
Altri pozzi furono costruiti alla fine del Cinquecento per l’estrazione del tufo. Cisterne già esistenti furono ampliate per permettere l’estrazione della roccia quando alcuni editti proibirono l’importazione, entro le cinta delle mura, di materiali da costruzione per evitare l’espansione di Napoli. Di conseguenza, furono costruiti anche pozzi di ventilazione che servivano ad arieggiare le gallerie sotterranee. Solitamente erano ubicati all’estremità delle grotte. Nella provincia di Napoli si trovavano invece numerosi sorgenti di acque termo-minerali che hanno dato il nome a Pozzuoli, la cui origine latina è Puteoli e cioè piccoli pozzi. La numerosa presenza di pozzi sul territorio campano contribuì a sviluppare l’idea che alcuni di questi fossero stregati.
Anche le persone che lavoravano all’interno delle cavità erano connotate da sembianze magiche, ad esempio i pozzari, coloro che erano capaci di arrampicarsi e destreggiarsi nel buio delle gallerie. A loro è legata la leggenda del munaciello, fantasma dispettoso che poteva entrare nelle case senza farsi scoprire dagli abitanti.
Una delle tante cavità a essere individuata come miracolosa era nei sotterranei della basilica di San Pietro ad Aram. Secondo Giovanni Villano le acque di questo pozzo avevano il potere di attenuare il dolore delle partorienti e favorire il lavoro delle ostetriche. Non solo, erano in grado di lenire le pene anche degli uomini che le bevevano con devozione.
Il pozzo che maggiormente incarnava questa idea esoterica si trovava nel tratto superiore di via Duomo, tra il vicoletto del Tarì e l’attuale S. Giuseppe dei Ruffi, che anticamente era chiamato del Gurgite. Il primo a citare questa cavità fu Giovanni Boccaccio nella novella di “Andreuccio da Perugia”, contenuta nel “Decamerone”. Il poeta lo definì “pozzo bianco” per la bocca ricoperta da marmi bianchi appunto. Ed è proprio grazie a Boccaccio che il vicoletto del Tarì è detto anche del Pozzo Bianco. Il bassorilievo della cavità era decorata con delle sanguisughe, ed è proprio da questi animali che prende spunto un’altra leggenda. Secondo la tradizione popolare il poeta-mago Virgilio avrebbe creato una sanguisuga d’oro che, gettata nel pozzo, aveva interrotto una pestilenza che si era diffusa a Napoli per l’inquinamento delle acque. La sanguisuga con il suo potere purificatore, avrebbe succhiato i liquidi infetti del pozzo salvando tutta la popolazione.
Fonti: Giovanni Liccardo, “Il grande libro dei misteri di Napoli e della Campania risolti e irrisolti”, Newton Compton Editori, Roma, 2006; Mario Buonoconto, “Napoli esoterica”, Newton Compton Editori, Roma, 2006; Renato Nicolini, Napoli AngelicaBabele, Rizzoli, Milano, 1996; Gennaro Aspreno Galante, Guida sacra della città di Napoli, Stamperia del Fibreno, Napoli, 1872.