Grazie alle dichiarazioni del super pentito Isidoro Di Gioia, l’antimafia di Napoli ha nuovi strumenti a disposizioni per incastrare i componenti di varie organizzazioni comorristiche di Torre del Greco. I dettagli su Metropolisweb.it
Dieci verbali per inchiodare i 53 imputati del blitz Goral che – a novembre del 2012 – smantellò le tre organizzazioni camorristiche di Torre del Greco in guerra per il controllo degli «affari» legati a racket e droga, nonché i vertici degli Amato-Pagano ovvero i «marsigliesi» di Secondigliano.
C’è un’arma in più in mano alla direzione distrettuale antimafia di Napoli: le prime dichiarazioni del super-pentito Isidoro Di Gioia, passato da capo del «clan del tatuaggio» a gola profonda al servizio dello Stato. Un nuovo ruolo che si potrebbe rivelare letale per la colonna storica degli amici di giù a mare e per il gruppo di scissionisti del rione Sangennariello, finiti alla sbarra per rispondere a vario titolo di estorsione, spaccio di sostanze stupefacenti e omicidio. Perché Isidoro Di Gioia conosce tutti i segreti della malavita all’ombra del Vesuvio e sembra intenzionato a non tenere nascosto nulla alla Dda di Napoli: a partire dal mese di marzo del 2013, l’erede del padrino Gaetano Di Gioia – alias ‘o tappo, massacrato in un agguato il 31 maggio del 2009 – si è seduto per dieci volte davanti al pubblico ministero Maria Di Mauro, ricostruendo a ruota libera le evoluzioni della «camorra spa» della città del corallo.
Resoconti ricchi di omissis – necessari per «coprire» le informazioni che potrebbero essere utilizzate dalla Dda per fare scattare ulteriori arresti – ma in cui Isidoro Di Gioia ricostruisce gli scenari criminali sotto il Vesuvio a partire dal mese di aprile del 2009 e i compiti di ogni affiliato alla «camorra spa» di Torre del Greco. «In questo periodo – l’incipit dei verbali acquisiti nell’ambito del processo nato dal blitz Goral – visto che c’era un po’ di confusione nel gruppo, mio padre convocò una riunione per cercare di mettere ordine e pace». Un incontro organizzato in casa di Stefano Mennella – all’epoca detenuto – a cui parteciparono tutti i «big» della malavita organizzata della città del corallo: Gaetano Magliulo, alias ‘a mulignana; Francesco Paolo Raiola, ‘o cecato; Antonio Mennella noto come ‘o picciuotto; Ciro Montella e Giovanni Di Dato, alias Giannino ‘o meccanico. «Mio padre disse che dovevamo togliere tutte le chiacchiere di mezzo – ricorda Isidoro Di Gioia – e dovevamo dividere i compiti e i ruoli. In particolare, assegnò a Giannino ‘o meccanico il compito di fare estorsioni, a Gaetano ‘a mulignana di occuparsi della droga mentre a me fu detto, anche da parte del picciuotto, che dovevo passare solo il ‘fumo’ che acquistavo da loro. Dunque, non potevo più avere miei canali di rifornimento autonomi, ma tutto doveva rientrare nel sistema: in cambio ottenni che venissero stipendiati regolarmente e, quindi, inseriti a pieno titolo nel gruppo anche Filippo Cuomo e Girolamo Iadeluca che facevano droga per mio conto».
Secondo lo «schema» partorito da ‘o tappo – in vista della scadenza del suo regime di sorveglianza speciale – in gioco sarebbero dovuti entrare «gli ottimi rapporti con gli albanesi, grazie a cui potevamo cominciare a lavorare a grossi livelli con la droga». Un business particolarmente invitante che fece maturare l’idea della «grande pace»: un accordo sancito con una stretta di mano, ma violato dopo solo tre settimane.
Quando gli scissionisti del rione Sangennariello organizzarono l’agguato costato la vita a Gaetano Di Gioia. Solo per miracolo il baby-boss scampò alla morte. E oggi è pronto a inchiodare tutti i suoi nemici e gli ex alleati.