I canti dei briganti nascevano come un momento di aggregazione e conforto. Bisogna immaginare queste persone, segnate dalla lotta e dalla fame, che, per trovare un po’ di conforto, si riunivano la sera intorno a un focolare e cantavano il proprio orgoglio e la propria identità.
Erano canzoni semplici, forti, ma semplici, che cantavano coralmente donne e bambini, soldati e contadini, analfabeti e intellettuali, accompagnati da pochi strumenti musicali poveri e facilmente ricavabili, come le tammorre. La canzone diventava coraggio, rassicurazione, famiglia e amore, diventava un rito che rendeva guerra e occupazione un rumore lontano, soffuso, celato dall’incalzare del battito di mani e di pelle, annientato dalla voce dei bambini.
Oggi, come allora, il Sud gioisce al suono della tammorra, grandi e piccini ricordano, cantando, il sangue dei martiri della loro terra. Una felicità mista alla nostalgia della grandezza che Napoli ha perduto in quegli anni di sangue e conquista, il Regno per cui i briganti diedero tutto. Così, il bambino che durante la Festa della Tammorra di Somma Vesuviana ha iniziato a cantare “Brigante se more” accerchiato dalle tammorre diventa il simbolo di una cultura e una tradizione che rinascono e si rinnovano nelle generazioni. La voce di quel bambino è la voce del Sud che consapevole ricorda i soprusi del Nord, del Sud che ancora sa distinguere “‘o vero lupo che magn’ ‘e criature'”, il piemontese che i briganti combattevano. Ecco il video pubblicato su YouTube da Laura Noviello:
[youtube]https://www.youtube.com/watch?v=cZ88QzjJG3M&feature=youtu.be[/youtube]