Ho incontrato Livia Barbato una sola volta, all’Accademia delle belle arti di Napoli.
Ero lì per intervistare alcuni dei ragazzi che hanno collaborato alla realizzazione del Festival del Bacio e Livia mi scattò la classica foto promozionale di quella edizione, con il cuore in plexiglas tra le mani. Ricordo anche che dopo aver tentato, rinunciò a fare l’intervista, perché troppo timida per parlare di fronte alla camera.
Non abbiamo avuto una conversazione, non c’è stata grande interazione se non qualche sguardo reciproco e saluti gentili, sinceri seppur di circostanza, come quelli che ho riservato ad altre persone lì presenti. Non starò qui tuttavia a parlare di legami mistici e celati, instaurati con lo scatto di una foto, non svilirei mai un tragico avvenimento con frasi fatte solo per vanesio protagonismo.
Ciò che accadde dopo quel giorno fu ordinario, banale se si vuole, mi ha dato inizio alle emozioni che mi hanno portato a scrivere oggi: Livia mi inviò una richiesta di amicizia su Facebook, che accettai senza imbarazzo e senza chiedermi il perché. Ripensandoci oggi, probabilmente era curiosa di sapere cosa avrei scritto del loro progetto, e io ero curiosa di approfondire il lavoro dei ragazzi di mediaintegrati tramite la comunicazione più informale che un profilo personale di Facebook permette di dare. Da quel giorno, coerentemente alle nostre originali intenzioni, non ci sono state chiacchiere né alcuna attività formale, ma solo degli occasionali e ugualmente autentici likes reciproci su post di vario tipo, ultimo dei quali la sua foto pubblicata da PhotoVogue.it. In sostanza il nostro rapporto è stato per la maggior parte di natura virtuale, ma ciò non mi ha impedito di nutrire delle emozioni per lei, addirittura dei sentimenti, che chiaramente sono traboccati tutti nel momento in cui ho saputo che proprio lei era la vittima dell’incidente. Chi l’ha conosciuta nel quotidiano, probabilmente potrebbe sentirsi infastidito dalle mie parole, perché oso parlare di una persona che difatti non conoscevo, ma le mie intenzioni sono ben lontane dal cosiddetto ‘inciucio’, dal pettegolezzo che purtroppo sta imperversando sul web nelle settimane scorse. Ad ogni modo, questo turbinio di emozioni mi ha portato a riflettere su ciò che stavo provando. È possibile che una relazione così astratta e immateriale possa aver provocato in me dei sentimenti reali?
Sicuramente con l’avvento del web 2.0 sono nati anche dibattiti in merito, ossia se i contenuti come le relazioni che si vi si sono creati all’interno possano essere considerati alla stregua di quelli consueti, più concreti ed empirici. Sebbene l’innegabile dominio dell’immagine nei processi comunicativi e culturali di oggi non sia paragonabile alla potenza emotiva e stratificata della percezione sensoriale, resta tuttavia incontestabile l’esistenza effettiva di sentimenti ed emozioni ‘virtuali’ che – parimenti a quelli convenzionali – condizionano il nostro essere e il nostro esistere.
In effetti, i sentimenti non sono altro che la manifestazione di sensazioni, di pathos, stratificatesi nell’Io col tempo grazie alla memoria, sia intellettiva che sensoriale e, senza dubbio, la memoria visiva è la più potente di cui l’uomo dispone. Per questo motivo, il mondo virtuale in cui oggi viviamo – apoteosi dell’immagine come mezzo di comunicazione e di interazione – rende ancor più veloce la nascita di legami.
Se entrambi sono capaci di soddisfare l’istinto sociale dell’uomo, allora qual è la differenza tra il mondo sensibile e il mondo virtuale? La parvenza di eternità.
Eroi omerici, faraoni, papi e nobili hanno agito per imprimere il proprio nome nella storia dell’uomo, cercando di creare qualcosa che potesse ovviare alla caducità della memoria umana attraverso simulacri evidenti che manifestassero la loro immagine in eterno. A questo proposito, il mondo del web sembra poter soddisfare questa esigenza insita in ogni individuo: la presenza di un profilo, rintracciabile in qualunque momento nell’inesauribile memoria di internet, induce esattamente la sensazione di immortalità.
Se è vero che ogni individuo nutre il desiderio inconscio di gloria eterna – eredità della natura umana e dell’istinto di sopravvivenza – ognuno nutre senz’altro il desiderio di condividere l’immortalità insieme ai propri cari, essendo infondo un animale sociale. In questo senso, Facebook è riuscito a creare un luogo di stasi, di incertezza, in cui è ancora possibile creare un contatto con delle individualità. Quanti sono, in effetti, i profili creati ad hoc post morte per “far rivivere” la persona scomparsa? O – addirittura – quanti sono i profili delle vittime che continuano ad essere attivi per mano di familiari che ne hanno preso possesso, come a vivere attraverso la loro immagine?
Lilly Bartok è ancora lì, che sembra comunicare tutt’ora attraverso la sua pagina e il suo profilo Facebook.
Questa situazione di stasi, di limbo, sicuramente può dare un momentaneo conforto a chi ha perduto qualcuno troppo presto, ma probabilmente andrà ad infliggere una profonda lacerazione nella coscienza dell’uomo, la cui esistenza ha senso nel ciclo perpetuo di vita e di morte.