Neanche tre anni fa scrissi un articolo sui giovani italiani costretti a rimanere nello status di inattività forzato, i cosiddetti Neet (Not in Employment, Education and Training), acronimo inglese che indica gli individui che non sono impegnati né in un lavoro, né in un’attività formativa. Essendo una persona piuttosto ottimista, credevo che il tempo avrebbe curato questa ferita della società italiana e invece il trend è tuttora in crescita e non accenna a attenuarsi.
La crisi economica ha travolto quei pochi frammenti di solidità finanziaria che annoveravano la nostra nazione tra le più resistenti. I dati Istat 2013 non possono che insinuare nella collettività un senso di frustrazione la cui naturale conseguenza è prendere atto della situazione.
Benché l’Italia risulti nel 2011 a metà classifica tra tutti i paesi dell’Unione Europea in termini di Pil pro capite, il momento storico per i ragazzi di oggi è critico. Se guardiamo in maniera approfondita le condizioni economiche in cui versa il Mezzogiorno, e in particolare la Campania, il prospetto degenera.
Con il Pil pro capite più basso italiano, secondo solo alla Calabria, la Campania presenta un tasso di occupazione della popolazione, compresa tra la fascia di età dai 20 ai 64 anni, del 43,1%. Dunque il più basso del bel paese; ma il fattore sconvolgente riguarda la condizione lavorativa in cui si trova il gentil sesso. Al Sud è occupato solo il 47,8% delle donne a fronte del 70,6% registrato nel Nord–Est. Ma la situazione precipita indecorosamente in Campania, dove è occupato solo il 27,7% delle donne! Si presenta come un dato gravissimo che rispecchia quanto la società meridionale sia fortemente retrograda, ancorata tuttora ai vecchi stereotipi della donna che sul posto di lavoro porta solo seccature derivanti dal suo ruolo di madre e capitano, formalmente non riconosciuto, di una nave domestica che potrebbe affondare senza la sua costante presenza.
La scelta di porre in evidenza il tasso di occupazione e non di disoccupazione è volutamente cercata. Per quanto riguarda la mancanza di lavoro infatti, nonostante la Campania sia la regione che registra il tasso di disoccupazione più alto, l’Italia si assesta al 13° posto in Europa. Perché tale discrepanza? La risposta si trova facilmente negli indici che sono presi in considerazione per rilevare tale dato. Per calcolare il tasso di disoccupazione si prendono in considerazione le persone in cerca di lavoro sulla forza lavoro disponibile. Purtroppo secondo i dati Eurostat il numero di inattivi in Italia conta 3, 229 milioni di persone, dunque il 13,1 % della forza lavoro. Un dato drammatico che pone in evidenza la crescita del numero di individui scoraggiati nella visione di un futuro riscatto.
Quale è pertanto lo scontato esito di questo quadro desolante? Munirsi di bagagli, armarsi di speranze e migrare alla ricerca di un destino alternativo. Negli ultimi venti anni sono partite dal Sud ben 2,7 milioni di persone. Solo nel 2011 si sono trasferiti dal Mezzogiorno al Centro-Nord circa 114 mila abitanti, di cui la Campania ha il primato con 36.400 migranti. In dieci anni, dal 2002 al 2011 la Campania ha donato un esercito di forza lavoro, riportando le seguenti perdite: Napoli (-97mila), Torre del Greco (-15mila), Nola (-11mila), oltre a Bari e Caserta (-14mila), Salerno e Foggia (-10mila).
Tuttavia, è l’estero che attrae maggiormente le ondate migratorie, richiamando nel 2011 circa 50mila italiani. Questa volta però non sono i meridionali a conquistarsi il primato, infatti risultano solo il 30%, di cui la maggior parte decide di intraprendere questo difficile passo solo se accompagnato da un titolo di studio universitario. Le mete prescelte sono Germania (26,6%), Svizzera (12,8%) e Gran Bretagna (9,5%).
Da non dimenticare il fenomeno dei pendolari che è sempre in maggiore aumento, dove nel 2012 i pendolari di lungo raggio da Sud a Nord sono stati 155mila, 15mila in più rispetto al 2011. Nondimeno è interessante notare che quest’ultimi mantengono la residenza a Sud pur lavorando al Centro-Nord o all’ estero, non rinunciando così alla loro identità.
Questo denota come sia difficile per noi del Sud, abbandonare non solo il posto in cui dimorano i nostri affetti familiari e gli amici di una vita, ma soprattutto le terre d’origine che racchiudono in sé un patrimonio culturale trasmesso geneticamente di generazione in generazione a cui è quasi impossibile rinunciare.
Di fronte a una diminuzione demografica della popolazione napoletana del 5,3%, e soprattutto di quella dell’area vesuviana, si assiste quotidianamente alla perdita di nuovo potenziale da reclutare nella futura classe dirigente. A differenza dell’esodo degli anni che seguivano al miracolo economico italiano, durante il quale i nullatenenti lasciavano casa e famiglia per tentare la fortuna, attualmente si assiste a una inversione di tendenza. Ora sono i discendenti più eruditi della classe media a spiccare il volo. Come contraltare, la fuga di cervelli rimpinza le aziende settentrionali e straniere di menti brillanti sottratte al background locale. E intanto cresce inesorabilmente il gap tra il Nord e Sud grazie anche a questi giovani laureati che partono per costruirsi quell’ avvenire che gli viene negato in patria.
Il dramma dei figli della crisi è sintomo di una società malata che continua a sfornare nuove leve programmate dalla nascita per la migrazione. E la trama si svilisce per noi: donne, d’Italia, del Sud, di Napoli. Noi donne meridionali legate alle nostre radici e schiave del nostro fato, costrette a reprimere i nostri istinti per adeguarci a una realtà per nulla a nostra misura.