Anticamente, per le strade delle città partenopee, si aggirava una figura insolita, ‘o capillò (chiamato anche capillaro), un ambulante che comprava trecce e capelli per poi rivenderli ai produttori di touppé e parrucche. Gli strumenti di lavoro di cui si avvaleva erano un paio di forbici ben affilate ed un cesto di vimini, chiamato sporta, in cui adagiava le trecce d’oro di giovani fanciulle o le code di cavallo.
Sempre ben curato nell’aspetto e nel vestiario, richiamava l’attenzione della gente gridando ad alta voce “Capillò, Capillò, chi me chiamma” e cercava sempre di portare a termine il suo lavoro in cambio di poche monete, con cui le donne riuscivano a sfamare i propri cari ed a sopravvivere. L’ambulante infatti approfittava soprattutto di periodi di particolare miseria. Il capillaro era molto abile nel persuadere le donne e quando i loro mariti si rendevano conto del taglio di capelli era pronto a scappare a gambe levate. Questo mestiere veniva tramandato di generazione in generazione; i capillari inventarono un gergo speciale comprensibile solo da coloro che esercitavano l’attività.
Dopo aver raccolto tutte le trecce ed i capelli, venivano prima lavati e divisi per colore, lunghezza, consistenza e finezza e poi messi sulle logge delle case per l’asciugatura al sole. Dopodiché venivano spediti ai grossisti che li vendevano non solo in tutta l’Europa ma anche oltre oceano. Venivano dunque utilizzati per la realizzazione di parrucche molto sontuose e pregiate per le acconciature di aristocratiche dame, dei Lord inglesi dei magistrati, dei regnanti, insomma di vari personaggi illustri. Questo particolare mestiere si è estinto nel dopoguerra, dopo l’introduzione delle fibre sintetiche.
Il celeberrimo poeta napoletano Salvatore di Giacomo ha scritto una poesia, ” ‘O capillò”, incentrata sulla figura del Capillò, descrivendo la sua attività lavorativa come cospicua fonte di reddito ma allo stesso come mestiere spesso “scomodo”.
La protagonista della poesia è una giovane fanciulla perdutamente innamorata del suo uomo finito in galera. Per aiutarlo gli invia il ricavato in denaro ottenuto dalla vendita delle sue trecce d’oro. Ecco l’ultima strofa:
Capillò! .. . Chi me cniamma? Essa. – Ah,destino!
LL’nanno arrestato a Pasca ‘o nnammurato,
e s’ha tagliate ‘e trezze d’oro fino
pe ne mannà denare a ‘o carcerato.
E l scesa anr ino a mmiez’ ‘e gradiate:
– Te ngo s t i trezze; oi ni’, t’ ‘e buo ‘ acc at t àv-. ..
L’aggio mise tre lire emme l’ha date
(enun me so’ fidato d’ ‘a guardà .. . ).
L’aggio sentuta chiagnere scennenno,
ma nteneruto no,no,nun me so’!
Sti trezze d’oro mm’ ‘e voglio i’ vennenno!
Capillo’! .. . Capillo’! . . .