Ci sono storie che abbiamo amato di amore infinito ma che in realtà non sono mai iniziate ed è per questo che mai finiranno. Leggende che continuano ad affiorare anche a distanza di anni. Ci sono campioni che hanno segnato un epoca. Fuoriclasse il cui nome è impresso permanentemente in tutti gli almanacchi. E poi c’era lui: Attila Sallustro. Il Veltro. Uno che di segnare e di sognare, non ha mai smesso.
Nacque ad Asuncion (Paraguay), il 15 dicembre 1908 da mamma Anna e papà Gaetano. Ebbe due fratelli minori: Oreste, anch’egli calciatore, e Oberdan, che divenne dirigente FIAT in Argentina prima di essere sequestrato e ucciso brutalmente da un commando di rivoluzionari argentini nel 1972. La passione per il Futbol scoccò in maniera del tutto casuale. Il piccolo Attila era infatti affetto da cattive condizioni di salute e per questo la sua famiglia decise di iscriverlo ad una delle scuole calcio del paese. Mai ci fu scelta più azzeccata. Nel 1920, all’età di 12 anni, Sallustro si trasferì a Napoli assieme ai genitori. Qui continuò a maturare questa sua passione e i risultati non tardarono ad arrivare. Dopo qualche tempo infatti venne notato da un talent-scout che lo inserì tra le file dell’Internaples (la società antecedente a quella attuale). Nel suo primo campionato, il giovane oriundo segnò 10 reti in 13 presenze mettendosi fin da subito in gran mostra. L’anno successivo, con la nascita dell’Associazione Calcio Napoli con presidente Giorgio Ascarelli, divenne una delle pedine inamovibili dello scacchiere partenopeo. Venne soprannominato Veltro per evidenziare la velocità con cui compieva i suoi scatti.
I primi anni furono quelli più difficili. Si faceva fatica a trovare una quadratura al gruppo e i risultati in più di un’occasione non rispecchiavano l’effettivo andamento delle partite che Attila e compagni disputavano. Notevoli migliorie si ebbero però grazie agli investimenti del presidente che portò a Napoli gente come Vojak e Mihalich che, assieme a Sallustro, formarono uno dei tridenti più forti dell’ante-guerra. Un tridente che non deluse le aspettative e che segnò 43 gol in 31 partite. Numeri importanti (non solo all’epoca). In quell’anno arrivò anche la prima convocazione in nazionale ma Vittorio Pozzo che era troppo innamorato di Meazza lo preferì all’oriundo che in totale contò appena 2 presenze e un gol. I napoletani non la presero bene e così quando la nazionale era d’istanza a Roma una delegazione di tifosi si organizzò per andare a fischiare Giuseppe Meazza durante ogni sua azione.
L’annata 1934-35 segnò un calo rispetto a quelle precedenti: i partenopei terminarono il campionato al settimo posto, mentre furono eliminati dalla Coppa Europa al primo turno contro gli austriaci dell’Admira Vienna. Sallustro, in questa occasione, fu multato di 2.500 lire in quanto accusato di “scarso impegno”: in tutta risposta, l’italo-paraguaiano saltò gli allenamenti per due mesi e, di conseguenza, marcò in campionato sette reti in sole 20 presenze. Negli ultimi suoi due anni all’ombra del Vesuvio, gli azzurri ottennero rispettivamente un ottavo e un tredicesimo posto (ad un passo dalla zona retrocessione). Sallustro fece registrare otto reti in 26 presenze nella sua penultima stagione, e cinque marcature in 8 gare nell’ultima annata con la maglia azzurra. In toto, disputò undici campionati con 266 presenze e 108 reti. Appese le scarpette al chiodo nel ’39 all’età di 31 anni dopo due stagioni alla Salernitana.
Prima di Sivori e Maradona ci fu lui a sconvolgere la città dentro e fuori dal campo. Innumerevoli sono gli episodi che lo videro protagonista a partire dai regali: abiti, cravatte, persino una Balilla 521. Questo perché Sallustro non percepiva stipendio. Il padre riteneva indecoroso ricevere del denaro per giocare a calcio e così in 7 dei suoi 11 anni azzurri l’attaccante vestì la maglia azzurra per quasi 200 partite senza avere un solo centesimo in cambio. Qualcosa di incredibile. Con quella Balilla era molto spericolato. Addirittura un giorno arrivò ad investire un uomo che alzandosi scosso per la botta appena presa, nel momento in cui si accorse chi fosse il pirata della strada, mormorò: “Scusate, è colpa mia. Voi potete fare tutto quello che volete“. La venerazione era tale che quando l’attaccante, amante dell’arte, arrivava in ritardo ad uno spettacolo, questo si fermava al suo ingresso per permettergli di mettersi comodo. Fu proprio in tali circostanze che conobbe la sua bellissima moglie, Lucy D’Albert, in quanto durante uno spettacolo interattivo sua madre, che lo dirigeva, gli chiese con quale delle ragazze avrebbe fatto di tutto per fare un figlio. Non vi furono troppi dubbi al riguardo.
Dopo il ritiro dal calcio giocato, si stabilì a Roma. Nel 1960 tornò a Napoli nelle vesti di direttore del neo Stadio San Paolo (inaugurato l’anno prima): incarico che mantenne per oltre vent’anni fino al 1981. Nel ’61 ricoprì anche una breve parentesi come allenatore dei partenopei, subentrando ad Amedei nella ultime due gare del campionato. Morì a 75 anni il 28 maggio del 1983. A lui sono dedicati una strada nel quartiere di Ponticelli un piazzale a Casavatore e lo stadio comunale di Carbonara di Nola. Dei degni omaggi per colui che è stato a tutti gli effetti il primo vero idolo della tifoseria partenopea. ‘O primmo ammore nun se scorda maie, Tanti auguri Attila!