Fabio Cannavaro intervistato da Alessandro Alciato per Storie di Serie A, il format di Radio Serie A che racconta i protagonisti del calcio italiano. Il difensore napoletano parla della sua esperienza da allenatore, dagli esordi in Cina passando per l’esperienza a Benevento fino al grande sogno, quello di allenare il Calcio Napoli, dove ripone più di una speranza: “È solo una questione di tempo, so che se inizierò a fare questo lavoro mi verrà data sicuramente l’opportunità”.
“Io alleno dal 2014, quando Marcello Lippi mi portò in Cina con lui: per tanti è vista come un’esperienza non delle migliori, però in Asia in quel periodo c’erano grandissimi allenatori. Ho avuto la fortuna di far bene, vincere e rimanere cinque anni, durante i quali ho potuto allenare giocatori come Paulinho, Pato, Talisca e Witsel. Siamo arrivati a fare le semifinali di Champions League asiatica. Sono tornato qui nel periodo del Covid, ho rifiutato la panchina della Polonia perché pensavo di trovare qualche nazionale migliore e dissi di no, anche perché c’era poco tempo per lavorare”.
“Mi sono reso conto poi che l’esperienza cinese non è vista bene, non ho capito perché: mi dispiace perché dieci anni di panchine contano. Ho pazienza e aspetto: è quello che voglio e che mi piace fare. Tutti pensano che Benevento sia stata una parentesi negativa, ma per me è stata formativa. Opinione pubblica? Ho parlato con tanti allenatori, non si vede bene il fatto che uno vada a fare un’esperienza all’estero e poi magari rientri. Noi siamo una scuola importante, Coverciano sforna tantissimi allenatori, ma il fatto di pensare di poter allenare solo in Italia è sbagliato. Non si conosce quello che succede fuori dall’Italia, ci sono tanti bravi allenatori in giro per il mondo”.
“Incompreso e sottovalutato? Non si può guardare solo l’esperienza di Benevento. Quando sono arrivato c’erano problemi con lo staff medico, problemi con squadra e presidente, oltre che giocatori infortunati: avevo 13 titolari fuori, non posso essere valutato. Per quei pochi mesi che sono stato lì ho instaurato con i giocatori un rapporto importante, mi sento ancora con loro e li seguo. Quella è la cosa più importante per un allenatore, quando si lascia qualcosa al giocatore. Sono arrabbiato? Dopo due anni, mi chiedo: ‘È possibile che su 20 soluzioni 19 siano all’estero?'”.
“Daniele è l’esempio che forse si avvicina più al mio. È andato a Ferrara e dopo ha avuto l’opportunità di allenare la Roma, una grande squadra con grandissimi giocatori. Adesso stanno facendo quello che era nell’immaginario di tutti quanti. Al giorno d’oggi il calcio è diverso rispetto ai nostri tempi, dove potevi tranquillamente fare solo gestione. Ora i giocatori pretendono dagli allenatori conoscenze, concetti, idee di possesso e non possesso che prima l’allenatore non doveva avere. Oggi, dopo i primi due allenamenti, se ai giocatori non parli di calcio se ne accorgono. Crescono già nei settori giovanili parlando di tattica e movimenti, se non proponi qualcosa se ne rendono conto subito”.
“Daniele è stato bravo perché ha iniziato a far ragionare i giocatori, a farli pensare all’occupazione degli spazi, ad attaccare la profondità, a rompere le linee, a giocare corto e lungo: il giocatore si diverte, perché inizia a ragionare. Allenatori che mi hanno fatto annoiare? Daniel Passarella, a Parma, non capì il momento: invece che essere duro con noi, avrebbe dovuto essere più morbido. Ci negava alcune cose: eravamo abituati ad andare al cinema in ritiro, voleva fare il duro e ci tolse la possibilità di farlo. Poi ho avuto grandi allenatori: Malesani già vent’anni fa parlava di calcio moderno, quello che oggi vedi con il Manchester City o con Roberto De Zerbi. Non penso che qualcuno si sia inventato il calcio: c’è chi lo racconta meglio”.
“Attaccare in avanti e non dare tempo all’avversario: Lippi l’ha sempre fatto. La sua Juve pressava a tutto campo, aveva già il concetto di andare ad attaccare in avanti e ridurre tempo e spazio all’avversario. Spesso vedo la ricerca di voler scoprire il calcio per essere poi apprezzati. Io penso che Sacchi e Guardiola abbiano dato concetti importanti, però sono stati più bravi perché si sono fatti seguire, hanno fatto cambiare testa a certi giocatori in un momento particolare del calcio. Un conto è fare un certo tipo di gioco a Parma, ma poi la bravura è andare al Milan e farlo fare a diversi campioni. Guardiola ha messo insieme tanti campioni e li ha fatti correre. Io ho avuto la sfortuna di giocare contro il suo Barcellona: vennero al Bernabeu, iniziarono con transizioni e riconquiste, non ti davano il tempo di pensare che già ti avevano rubato la palla. Aveva dato ai suoi giocatori voglia di correre: prima gli attaccanti non correvano in fase di non possesso, adesso il calcio è cambiato”.
“È solo una questione di tempo, so che se inizierò a fare questo lavoro mi verrà data sicuramente l’opportunità. Per quello che rappresento so di avere delle agevolazioni, perché è normale. Per chi ha fatto una carriera come la mia a volte è più semplice se dimostri quello che vali. Napoli è una squadra che tutti vorrebbero allenare gratis, ha una qualità tecnica superiore ad altre squadre. Ho sempre detto che la panchina del Napoli è un obiettivo. Quest’anno era un’idea più dei media che della società, però io vado avanti per la mia strada: non mi ha regalato mai niente nessuno, ho la testa dura e ho sempre sudato quello che ho avuto. Ero piccolino: ho sempre dovuto saltare più degli altri, correre e lottare di più. Sento ancora il fuoco dentro, quella è la voglia che mi fa stare sereno: aspettiamo”.
“La scorsa stagione c’è stato tanto lavoro da parte della società, da parte del suo allenatore e dello staff. Era una macchina perfetta. I miracoli non nascono per caso. Quest’anno è entrata in un vortice di negatività che ha fatto sì che i giocatori iniziassero ad avere più dubbi che certezze. Questo è dovuto non solo al cambio di allenatore, ma anche dalla comunicazione e a tutto quello che gira intorno a una squadra. Questo non ha aiutato i giocatori, non ha aiutato nessuno. È brutto vedere a metà classifica una squadra che ha vinto l’anno prima. Calzona? Fin quando non sei lì non puoi giudicare. La mente del calciatore del Napoli oggi è un po’ inquinata: sono passati allenatori con concetti diversi. Non è facile per loro e nemmeno per chi allena, ma tutto quello che c’è intorno dà degli alibi ai giocatori. Ad esempio, la comunicazione: si parla dell’allenatore dell’anno prossimo quando ne hai uno ora“.
“Ho rifiutato perché credevo mi chiamasse l’Italia? Inconsciamente prima degli spareggi per le qualificazioni ai Mondiali ho pensato: “se le cose vanno male che succede?”. Ma poi non è cambiato nulla. Ci ho pensato, ma non avevo certezze. È stato uno dei pensieri che ho fatto quando valutavo la Polonia, avevo solo tre giorni per preparare uno spareggio contro la Russia che poi non si è giocato per la guerra. Il mio rapporto con la Nazionale è un rapporto forte, c’è un’atmosfera magica attorno, non ci rendiamo conto di quello che rappresentiamo nel mondo. Non essere andati ai Mondiali è stato visto come qualcosa di normale, ci siamo abituati e questo mi dà fastidio: ognuno di noi pensa al suo orticello, ma dobbiamo pensare che il valore di un giocatore aumenta quando gioca in Nazionale, oppure quando vince una Champions League. Ma dato che di Champions se ne vincono poche, tanto vale puntare su qualche giovane italiano“.
“Non è un pensiero fisso, ma non si dimentica. Quando rivedo le immagini mi emoziono: sono passati quasi 18 anni. Abbiamo perso un po’ di quel fascino che avevamo qualche anno fa. Dopo quel Mondiale siamo passati dall’essere giocatori forti a leggende, quando vai all’estero ti rendi conto della differenza. Personalmente ho avuto anche la fortuna di vincere a livello individuale. Eravamo forti, perché ognuno di noi è arrivato al massimo delle sue qualità fisiche, tecniche e mentali. E poi avevamo un allenatore che leggeva le partite, sapeva mantenere un gruppo unito”.
“Cos’avevamo in più rispetto ai giocatori di oggi? Non si può dire se avevamo qualcosa in più o in meno, sicuramente la mia generazione aveva molti più talenti sparsi in tutto il mondo. L’istruttore deve rimanere istruttore, fino a una certa età devono insegnare a giocare anche a livello individuale. Attaccanti di oggi che non avrei fermato? Non ci sono… scherzo dai (ride, ndr). Guardo Lukaku e vedo tutti i difensori che cercano lo scontro, il contatto fisico provando a spostarlo, mai nessuno che scappi cercando di togliergli l’appoggio”.
“Oggi i centrali giocano poco di testa e ancora meno col compagno al loro fianco. Io sapevo che potevo andare in anticipo perché poi c’erano i miei compagni, vedo che adesso succede poco. Poi ci sono attaccanti come Osimhen, difficile da marcare; Lautaro, che in area sa quando deve attaccare il primo palo o sfilare dal difensore: ci sono attaccanti che mi avrebbero messo in difficoltà. Cos’ho pensato prima di alzare la Coppa del Mondo? Avevo visto Cafu il Mondiale precedente, se l’era goduta. Non volevo soltanto alzarla, me la sono goduta anche io. Sepp Blatter? Ci siamo rivisti, fece anche una battuta a Coverciano, ma la mancata premiazione non fu una bella cosa. Loro dissero che il vicepresidente dell’Uefa andava in pensione, ma aldilà di tutto era Blatter il Presidente”.
“Io sono stato bene ovunque. Anche all’Inter sono stato da Dio, vivevo in centro a Milano, mia moglie ed io eravamo contenti. Non c’è una squadra in cui sono stato meglio. Ho visto le diverse caratteristiche delle società che mi hanno permesso negli anni di crescere a livello personale: quando arrivi in certi club capisci che contano due cose più di tutto, cioè il lavoro e la voglia di voler arrivare all’obiettivo. Quando arrivi a Madrid e vedi tutti quei trofei capisci subito che non si può sbagliare. Juventus? All’epoca la società si rese conto che avrebbe dovuto vendere dei calciatori, mi dissero che stavano parlando con il Real Madrid: mi stavano dicendo che dovevo andare. Io in due anni a Torino ero considerato a livello di Buffon e Del Piero, perché venivo dall’Inter e sul campo avevo avuto prestazioni importanti. Sono stato bene, con giocatori straordinari e due campionati annullati, ma avevamo una grandissima squadra”.
“Il Bologna di Thiago Motta è una squadra divertente, mi ricorda un po’ il Bayer Leverkusen. C’è tanto lavoro dell’allenatore, ma anche di società e dirigenti che hanno preso giocatori che non tutti conoscevano a inizio anno, ma che erano già forti. Thiago li ha liberati mentalmente facendoli divertire, sicuramente sono calciatori che a fine anno avranno un’altra valutazione. Mi auguro che arrivino in Champions, è giusto che raccolgano obiettivi importanti. Giovani italiani? Io vorrei vedere Casadei in Italia: l’ho visto in Primavera, è un giocatore diverso e questo fa ben sperare perché tra lui, Tonali, Donnarumma e altri ragazzi stanno emergendo giocatori bravi. Bisogna essere lungimiranti per scovarli: prima guardavi solo in casa tua, ora devi essere bravo a seguirli e portarli in Nazionale”.