Nell’era della globalizzazione ciò che sta scomparendo è l’unicità di alcuni prodotti e delle lavorazioni, un tempo, esclusive e simboliche di una determinata terra. Basta andare in qualunque luogo turistico o, semplicemente, centrale in una grande città per accorgersi che i confini sono molto labili: ristoranti cinesi che cucinano, all’occorrenza, anche una cotoletta milanese, pub inglesi che offrono dell’ottimo vino toscano e locali italiani che possono preparare anche un veloce kebab.
Figuriamoci la tanto amata pizza che, da secoli, viene esportata in ogni parte del globo: basti pensare in quanti film americani vediamo i protagonisti mangiare pezzi di pizza giganteschi e molti impallidirebbero pensando a quante pizzerie, gestite da cittadini locali, sono aperte nel lontano Giappone. Insomma, nata a Napoli, nonostante qui sia unica, la pizza è diventata un simbolo universale al punto che nemmeno le pizzerie italiane sono più gestite da italiani.
In città come Milano e Bologna le pizzerie straniere sono ormai rispettivamente il 50% (634) e il 45% (180) avvicinandosi al sorpasso su quelle italiane. E’ quanto emerge da una elaborazione della Camera di commercio di Milano su dati del registro imprese 2016. A Torino è straniera più di una pizzeria su tre (38%) mentre a Roma una su cinque (20%). Resiste Napoli, nella patria della pizza gli stranieri sono meno di uno su 100.
Tra le nazionalità specializzate in pizza spiccano gli egiziani che a Milano pesano il 66% dei titolari stranieri (considerando solo le imprese individuali), a Roma il 59% e a Torino il 42%. Le pizzerie si confermano ovunque una buona parte dell’offerta della ristorazione italiana: sono il 31% dei ristoranti bolognesi, il 26% di quelli milanesi, oltre il 20% dei ristoranti romani (24%) e torinesi (22%). A Napoli sono il 12%.