A Napoli abbiamo una via e una stazione della metropolitana a lui dedicate. E forse molti di voi sentendo il suo nome penseranno subito ai molteplici dipinti che ha realizzato. L’illustre figlio di Napoli di cui andiamo a raccontarvi è Salvator Rosa, all’anagrafe Salvatore De Rosa.
Nato nel luglio del 1615 (forse il 21 luglio, ma la data è incerta) nell’attuale quartiere Arenella, all’epoca un villaggio rustico che si estendeva intorno alla parrocchia, fu iniziato all’arte pittorica dalla zio. I suoi primi lavori rappresentavano soggetti sacri, ma poco dopo si dedicò alla sua vera passione: i paesaggi.
Dopo aver studiato a Napoli con diversi artisti del suo tempo come Jusepe de Ribera, compiuti i vent’anni si trasferì a Roma dove conobbe i cosiddetti bamboccianti, per di più autori olandesi e fiamminghi che dipingevano, per dirlo con le parole dello stesso Rosa, “falsari e guitti e facchini, monelli, tagliaborse… stuol d’imbriachi e gente ghiotta, tignosi, tabaccari e barbierie”.
Usiamo frasi dello stesso pittore perché proprio Rosa fu anche poeta. Infatti, dopo poco essersi trasferito a Firenze, su invito del cardinale Giovan Carlo de’ Medici, iniziò a scrivere le Satire in cui espone la sua passione nei confronti di una pittura letteraria e filosofica. In particolare l’opera era dedicata alla Musica, alla Poesia, alla Pittura, alla Guerra, all’Invidia e alla Babilonia. L’autore si mostra abbastanza critico nei confronti degli eccessi artistici, dei costumi corrotti della Roma antica, del malgoverno dei principi italiani e dei viceregni francesi e spagnoli. Ma mentre componeva opere e dipingeva opere che lo avrebbero reso celebre per sempre, quali “Erminia incide il nome di Tancredi”, “Veduta di un golfo” e il proprio “Autoritratto”, Rosa acuì sempre più il suo amore anche per un altro tipo di arte, la più emotiva e comunicativa: la musica. O se vogliamo essere ancora più precisi, la canzone napoletana.
Salvator Rosa non disdegnava di calcare i palcoscenici e neanche di farsi conoscere per strada al punto che è ritenuto da molti uno dei primi posteggiatori partenopei. E per posteggiatore non intendiamo tombeur de femmes, ma un musicista vagabondo che suonava e cantava, in luoghi chiusi o all’aperto, opere nuove o rifacimenti di grandi classici. Nel Seicento a Napoli la musica era una delle componenti fondamenti del popolo. Si ascoltava per le strade grazie agli organetti meccanici, si udiva nei posti più impensati con i posteggiatori e si apprezzava nei celebri café chantant. Secondo alcuni il pittore poeta sarebbe anche l’autore di Michelemmà, celebre tarantella del Seicento nonché una delle prime canzoni d’autore, che narra di una giovane ischitana preda dei turchi. In realtà ad attribuire la paternità di quest’opera a Rosa sarebbero stati Salvatore di Giacomo e lo storico inglese Charles Burney. Quest’ultimo, dopo aver acquistato da un discendente di Rosa un libro con scritto “Libro di Musiche di Salvator Rosa”, trovandovi al suo interno il testo di Michelemmà, fu convinto di averne scoperto l’autore. Rosa avrebbe scritto la famosa canzone napoletana per una ragazza di cui era innamorato. Michelemmà (Michela è mia) loda con i suoi versi una bellissima giovane nata in mezzo al mare durante una scorribanda di pirati, che per i suoi begli occhi si suicidavano almeno a due per volta. Nel testo la si definisce “scarola” che potrebbe significare “schiava”, ma alcuni propendono per “ragazza riccia”.
Sul vero autore della tarantella napoletana ancora oggi ci sono dubbi, ma ciò che è certo è che il pittore poeta e compositore tornò diverse volte a Napoli per comporre alcune delle tele che lo consacrarono come uno dei più importanti artisti barocchi del panorama italiano.
Fonti: Agnese Palumbo, “101 storie su Napoli che non ti hanno mai raccontato”, Roma, Newton Compton, 2015
Luciano De Crescenzo, “Ti voglio bene assai”, Milano, Mondadori, 2015
Antonio La Gala, “Vomero. Storia e storie”, Napoli, Guida, 2004