“La grande bellezza” conquista gli Oscar e Sorrentino ringrazia la sua città
Mar 03, 2014 - Guendalina Elia
Sorrentino agli Oscar 2014
“Grazie a Federico Fellini, Martin Scorsese, Diego Armando Maradona. Grazie a Roma e grazie a Napoli”
Napoli e tutta l’Italia hanno atteso la notte degli Oscar del 2014, chi, tra i neofiti, da quando è stata annunciata la candidatura del film di Sorrentino o chi, tra gli amanti del cinema italiano, probabilmente da prima di “La vita è bella” (1997) di Benigni.
Alla fine il verdetto è arrivato e anche con grande entusiasmo. Sì, perché nella scelta dell’Academy non c’è solo la soddisfazione di ritrovare il cinema italiano apprezzato anche all’estero, ma soprattutto una rinnovata fiducia nel cinema italiano grazie a un film che realmente rappresenta uno dei migliori prodotti degli ultimi anni, non solo in Italia ma in tutto il mondo.
Vista la scelta di ignorare il film da parte della giuria di Cannes, che ci aveva assai sorpresi, molti erano di conseguenza scettici sulla eventuale vittoria del regista napoletano agli Oscar, considerato che già il metodo di selezione della pellicola vincitrice ha lasciato molto a desiderare: da quest’anno, infatti, la giuria di 6.028 elettori qualificati non è tenuta più a dimostrare di aver visionato tutte le pellicole in gara, per cui potrebbe tranquillamente accadere che gli elettori abbiano guardato solo uno dei cinque film selezionati.
Nonostante tutto, questa vittoria rappresenta un’ottima opportunità per riportare la produzione cinematografica italiana ai suoi tempi d’oro, magari con il sostegno americano, dal momento che l’Europa sta vivendo un momento di grande depressione e non è in grado di sostenere le spese per produzioni simili.
Sebbene “La grande bellezza” (2013) abbia riscosso notevole successo, la cui vittoria agli Oscar per la categoria di Miglior film in lingua straniera ne è un’ulteriore prova, numerosi critici hanno sostenuto che il film fosse un’infelice copia dell’immenso capolavoro che è stato e che continua ad essere “La dolce vita” (1960) di Federico Fellini.
Tra le analogie possiamo, difatti, trovare diversi elementi. Entrambe le pellicole raccontano Roma attraverso un personaggio errante, che conduce la propria esistenza compiendo scelte frivole e vuote; in entrambe le pellicole Roma ci viene presentata come indiscussa protagonista nella sua storica bellezza; in entrambe le pellicole ci si sente quasi infastiditi dalla più asettica e apatica corazza di superficiale, finto manierismo che contraddistingue il popolo borghese romano.
Tuttavia le differenze tra i due film sono molte e anche significative. In “La dolce vita” Marcello (indimenticabile Mastroianni) si ritrova a girovagare per le strade di Roma perché è in cerca di un ideale incarnato, lontano dalla mediocrità dilagante. Ricerca questo ideale nella diva Sylvia, che appare inarrivabile nella sua divina e imperitura bellezza, tanto che quando Marcello vi si avvicinerà nella fontana di Trevi l’acqua smetterà di scorrere, fin che Fellini la destrutturerà mostrandone la natura finzionale ed impalpabile; lo ricerca anche nel suo mentore e modello Steiner, uomo perfettamente inserito nel suo tempo ma già proiettato nel futuro, la cui immagine verrà tragicamente distrutta quando Fellini ci rivelerà il suo animo sospeso e lacerato.
Ne “La grande bellezza”, invece, Jep Gambardella – interpretato da un sempre magistrale Toni Servillo – ha scelto consapevolmente di far parte di quella mediocrità che Marcello cercava di evitare: lo scrittore, che si crogiola negli allori del passato, ombre della maestosità decadente della città eterna, compie un viaggio dantesco tra le simboliche macerie di un’Italia ormai culturalmente marcia.
Se la Roma di Fellini si rivelerà di una bellezza simulata, dissacrante e ipocrita, la Roma di Sorrentino è affollata dal nulla, forse quello di cui cercava di scrivere Flaubert, spaventosamente solitaria e quasi ovattata da effimere tentazioni che annullano la percezione della propria vita. La scena del salotto letterario ricorre in entrambi i film, ma se tutti i personaggi felliniani – Steiner compreso, che ricerca nell’arte la via salvifica – sono consacrati ad un inesorabile fallimento, causato dalla presunzione vanagloriosa di pseudo intellettualità, alcuni personaggi di Sorrentino, invece, riescono a salvarsi proprio perché inseriti nel mondo dell’arte, il quale permette di esprimere la creatività laddove la realtà appare incomprensibile e priva di senso.
Si salverà la finta idealista Stefania (Galatea Ranzi), allontanandosi dalla mondanità, per ritrovare un rapporto vero con la sua famiglia; si salverà Romano (Carlo Verdone), ingenuo e poco talentuoso scrittore, quando si allontanerà anch’egli dalla mondanità di Roma per ritornare alle sue origini, al suo paese; si salverà anche Jep quando capirà che la bellezza che tanto cercava era nelle sue origini, nel suo primo amore, quello innocente e incorrotto.
Per tutta la durata del film lo spettatore abbandonerà la trama volutamente inconsistente a favore di una perdita nella visione di maestose immagini di Roma e dei suoi personaggi, lasciandosi coinvolgere dalla evidente ricerca di sentimento e di bellezza che il regista compie con questo film, non solo nello splendore classico della città ma anche in quegli aspetti più grotteschi e pietosi.
Con pochi dettagli Sorrentino ci restituisce un’immagine contrastante di Roma: se col sopraggiungere della notte il tempo sembra distendersi e cristallizzarsi nella vacuità dell’esistenza dei personaggi, al sorgere del sole avremo un passaggio netto e repentino dal patetico al sublime. Non è un caso che spesso le inquadrature ‘notturne’ risultino quasi distorte e innaturali, come la prima lunga panoramica sulla festa orgiastica che apre il film, mentre le riprese ‘diurne’ appaiano ampie e quasi metafisiche.
Gli stessi abitanti di Roma ci vengono presentati in vesti assai contrastanti: la spogliarellista Ramona (Sabrina Ferilli) nonostante abbia ceduto ad uno stile di vita cristianamente peccaminoso e dissoluto, dimostra la sua incrollabile fede attraverso un tatuaggio dell’immagine di Papa Giovanni Paolo II; o peggio il cardinale Bellucci (Roberto Herlitzka), emblema della Chiesa corrotta, che se negli abiti mostra un casto rigore tipicamente clericale, dimostrerà invece la natura più buia con la sua ossessione morbosa per la carne e il cibo, tipica mania moderna e figlia di una tendenza ad un’eugenetica filonazista che dall’America di Schwarzenegger è arrivata anche nelle più alte sfere religiose.
Nonostante ciò, Jep cercherà la salvezza in quegli ambienti spirituali che da sempre caratterizzano la capitale italiana e qui la troverà, senza scadere nel più bigotto perbenismo. Dall’inizio del film lo scrittore, così come lo spettatore, verrà intimamente scosso dalla ricercata innocenza dei bambini, sempre in qualche modo legati agli spazi religiosi: all’inizio del film, dopo il suo compleanno, Jep accennerà un sorriso stupito dalle leggere risate dei chierichetti dietro le cancellate del convento; poco dopo, una meravigliosa sequenza mostrerà Jep incantato dinanzi a un gruppo di tre bambini e una suora che si ricorrono giocando e che si concluderà in un abbraccio tra la suora e uno dei bambini; o, ancora, verso metà del film, in prossimità di una cappella, una donna guarda nella nostra direzione chiedendo di sua figlia e poi Jep sentirà la voce della bambina, come fosse quella della sua coscienza, che gli chiederà “Chi sei tu?”. E’ un proustiano richiamo alla sua fanciullezza, dove cercare la grande bellezza.
E’ evidente, dunque, che il film del regista napoletano non è una volgare imitazione del capolavoro felliniano, ma piuttosto uno sguardo nuovo del cinema, incantato e innamorato, su Roma e quindi su tutta l’Italia. E’ uno sguardo del cinema al passato dell’uomo, di Jep, ma anche un semplice sguardo sulla vita.
Sebbene la vittoria che stiamo assaporando ci sembri ancora irreale, dal momento che il film manca di quella trama che invece viene esasperatamente ricercata dal cinema americano, ciò di cui siamo sicuri è la consapevolezza di un capolavoro la cui forza risiede proprio nelle sue immagini. Lo stesso regista ha dichiarato di non aver volutamente approfondito la realtà romana, dal momento che il suo intento non era di realizzarne un pieno resoconto, piuttosto di tentare di inventarla poiché a volte con la fantasia si riesce a realizzare la realtà.
Sia all’inizio che alla fine della pellicola Sorrentino ribadisce esattamente questo: in apertura, con un estratto del romanzo “Viaggio al termine della notte” di Cèline, si dichiara come la storia raccontata sia una finzione perché tutto ciò che non è immaginazione è delusione e fatica; e in chiusura lo ribadisce, con le parole del protagonista “In fondo è solo un trucco. Sì: è solo un trucco”.