“Don Raffaè”: il De André “napoletano” che ebbe i complimenti di Cutolo
Gen 11, 2019 - Domenico Ascione
Fabrizio De André, a venti anni dalla sua scomparsa, è considerato il più grande cantautore italiano. Poeta, musicista, scrittore e libero pensatore ha segnato con le sue opere intere generazioni, esempio ineguagliabile della musica internazionale. Abbiamo raccontato in passato del suo profondo e viscerale legame con la città di Napoli e di quando il poeta genovese lasciò il cuore nella nostra città. Il collegamento più evidente, però, è in una specifica canzone: “Don Raffaè”.
Composta da Mauro Pagani e scritta da De André e Massimo Bubola è l’unica cantata interamente in napoletano. Certo, la marcata cadenza genovese del cantautore mal combaciava con la nostra lingua, ma se si supera la stranezza ci si rende subito conto che Don Raffaè è un ritratto del marcio della nostra terra e dell’intero paese. Pubblicata nel 1990 all’interno dell’album “Le nuvole” e cantata in duetto con Roberto Murolo richiama e celebra nel ritornello “‘O ccafè” di Domenico Modugno.
L’amata bevanda nera è, tuttavia, solo il pretesto per raccontare la vera storia. L’intero testo è un dialogo fittizio fra un tale Pasquale Cafiero, brigadiere nel carcere di Poggioreale, ed un boss particolarmente importante detenuto all’interno, tale Don Raffaè, che non ha voce nella canzone. Più che un rapporto fra secondino e carcerato, quello fra Pasquale ed il Don è un rapporto di vassallaggio: il brigadiere porta il caffè, propone di fargli la barba, lo osanna ed esalta e fra un favore ed un servilismo chiede piaceri e raccomandazioni.
Erano gli anni delle bombe a Palermo, delle sparatorie a Napoli, gli anni dove i rapporti fra Stato e mafia venivano a galla, sempre più foschi, sempre più subdoli. Erano anche gli anni in cui l’ideatore e capo della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, riusciva a gestire la sua organizzazione, ad avere potere anche dal carcere, dove scontava la sua pena detentiva in una cella extralusso.
De André non ha mai fatto mistero che il personaggio di Don Raffaè altri non fosse se non l’omonimo Cutolo. Una denuncia in primis sulla situazione drammatica delle carceri, che per bocca del brigadiere Cafiero vengono definite “fatiscenti”, poi sui rapporti fra Stato e criminalità, sull’incapacità di contrastare il potere dei boss, anche se dietro le sbarre. Appare, infine, quello che ha sempre alimentato fenomeni come la Camorra: uno Stato assente e disattento ai bisogni del Pasquale Cafiero di turno che si trova a preferire un criminale alla legge perché almeno il criminale può risolvere i problemi giornalieri che lo affliggono.
Come reagì dunque Cutolo ad un simile affronto? Quali provvedimenti prese contro il poeta che così esplicitamente lo stava mostrando? Il boss scrisse una lettera a De André dove si complimentava con lui: per Cutolo era impressionante che con le poche informazioni disponibili l’artista avesse rappresentato così bene la sua condizione e la sua vita in carcere. De André rispose cordialmente, ma con distacco, ringraziando per i complimenti. Cutolo rispose ancora, ma il cantautore preferì interrompere la corrispondenza.
“Un carteggio con Cutolo non mi sembra il massimo. Per finire in galera basta assai meno.” Commentò ironicamente quando gli chiesero delle lettere. Oggi queste missive sono conservate insieme a tanti altri cimeli al Centro Studi Fabrizio De André nella facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena.