In un classico della cinematografia italiana degli anni ’90, Diario napoletano di Francesco Rosi, in un film-documentario che ha saputo esprimere (a quarant’anni di distanza da un altro grande successo del medesimo autore Le mani sulla città) – ottimamente – quanto le terre del vesuviano abbiano potuto patire e trasformare condizioni avverse in conquiste di umanità e cultura, avevamo già avuto modo come la vesuvianità non è un mero carattere geografico, biologico, fisico, o uno stereotipo fantastico di immoralità e miseria, ma un’esperienza umana che meriterebbe una fenomenologia e un’analisi tutta propria. Nei numerosi appuntamenti della nostra Rubrica – Ville Vesuviane abbiamo avuto modo di rilevare nel Miglio d’oro una sintesi dialettica privilegiata, una delle espressioni fondamentali della storia e dell’identità di ciò che si dice napoletano e delle realtà nate e cresciute alle pendici del Vesevo, ma come abbiamo visto non basta, bisogna perseverare e provare ad andare oltre, e ancor di più nel profondo della questione.
Il Miglio d’oro non è solo struttura e architetture, o di più l’architettura non è solo strutture e architettura. Il Miglio d’oro è stato, ed è ancora, per noi l’opportunità di nascere a un mondo dalle facoltà espressive e figurative uniche nel loro genere. Queste vanno preservate e difese con senno, e quale maggior senno può venire da una riscoperta teoretica e pratica allo stesso tempo. L’incontro di simbolico e immaginario, che sussiste nelle Ville e nei Palazzi del vesuviano, ci inizia a queste dimensioni, ci aprono dialetticamente a ciò che ci trama e ci intreccia.
Dobbiamo ritornare a fidelizzare con ciò che eravamo per ritornare ad imparare chi noi siamo; chi noi siamo? Questo è il desiderio interpretante che anima il nostro percorso. Il punto è che non dovremmo, per rispondere a tale domanda, contare solo sulle nostre forze, ma dovremmo quasi sicuramente accettare che non vi sarà mai una risposta piena e definitiva, un nome scientifico che spegnerà l’utopia di questa interpretazione.
Ciò che orienta i nostri racconti intorno le Ville vesuviane non sono mai stati criteri di verità ed errore, di veridicità e menzogna. Non sono pretese di esattezza ed oggettività, o di criticismo scientifico, ma rinnovate analisi e proposte possibili alternative, oltre i fumi del relativismo, per la ricerca di un nuovo consenso, una rigenerata convinzione (D. Tarizzo 2007).
Ciò che rimane originario della nostra “Krisis” non è una ragione classicamente economica ma culturale e politica: l’Europa dell’Euro non è più in grado di dirci chi noi siamo (ammesso e non concesso che essa ci abbia mai detto qualcosa di non superficiale), e le esperienze politiche del passato ci appaiono ormai così obsolete, e vetuste, degenerate per poter pretendere di continuare ad insegnarci su cosa dobbiamo fare per poter finalmente essere europei. Bisogna ritornare a comprendere che il passato, e non il futuro, è cambiato, e solo restituendo la parola al passato, ritornando a riflettere sull’attualità, possiamo nutrire la speranza, o meglio la fiducia, in un’azione concreta futura: affinché ciò che si dice umano possa ritornare a coltivare l’idea di poter disobbedire addirittura a una realtà così dura, fredda e indifferente, come quella fisica. La Reggia di Portici fu la risposta, e neanche la più esasperata, di Carlo III di Borbone al secolo del vicereame spagnolo, che come ormai dura, fredda e indifferente pietra di decadenza, aveva abituato a chi ci sbatteva la testa contro di non poter tracciare un’alternativo corso alle cose.
L’industria e l’ingegno erano esangui e aleggiava uno stiracchiato senso nevrastenico sulle terre meridionali. Con l’iniziativa delle forze politiche e produttive, che trovarono come riconoscersi, per un certo momento, nel profilo di un reale, Carlo III di Borbone, nulla fu come prima. La cultura e il sogno politico, che arriverà all’apice con l’esperienza rivoluzionaria e repubblicana napoletana del 1799, del rinascimento meridionale (o duosiciliano), dell’illuminismo vesuviano, vede nella Reggia di Portici un immagine privilegiata di sé.
La Reggia di Portici fu lo scalino che permise poi l’avventura più matura della Reggia di Caserta, eppure non può e non si esaurisce solo a questo. Culmine di un lavoro collettivo trovò il suo centro di gravità nella sua sede attuale, radicato tra un giardino all’inglese e un anfiteatro. Il soggiorno a Portici, a Villa d’Elboeuf delle teste coronate fu un’esperienza determinante per la realizzazione del sito in questione, qualcosa di indicibile si era iscritto nel profondo di un intera massa a lavoro.
Nel 1738 presero avvio i lavori, e con esso l’incredibile progetto politico dei Borbone di realizzare un nuovo risveglio dell’Europa monarchica non a livello continentale ma mediterraneo. Ciò non fu una mera specifica geografica ma un vero e proprio disegno di sviluppo delle culture mediterranee, orientate verso esiti poco ortodossi e tutt’altro che tradizionali. I Borbone vollero creare un’alternativa rispetto i modelli di sviluppo mondiale britannico e francese. I Borbone credevano in un modello collaborativo, dialettico e integrato. L’industria, i commerci, il genio di un’umanità illuminata poteva non essere instaurata su basi liberali, ma su progettualità socialiste, integrati modelli di conquista egemonica, politica e culturale di tutt’altro genere (e che aveva un solido legame privilegiato con i popoli dell’Asia e dell’Africa mediterranea). Non riusciamo ancora a trovare un nome a questo modello di sviluppo, ma certamente era anti-schiavile e molto lontano dalla “nordica belligeranza coloniale”. Antonio Canevari insieme ad altre belle intelligenze mitteleuropee, come il pittore Giuseppe Bonito e lo scultore Joseph Canart, contribuirono a costruire il nuovo Regno di Napoli e ripartirono anche da qui per le Due Sicilie.
Su rovine e dimore preesistenti la Reggia di Portici fu pensata e costruita, e, soprattutto, fu disegnata con l’intento di integrare in un concertato consorzio le realtà ambientali e storico-archeologiche. In essa anche l’antica Ercolano fu scavata e rielaborata per creare qualcosa di nuovo, il quale non fosse allo stesso tempo privato ed effimero, capriccio di una casa reale tra tante, ma che riflettesse le aspettative nuove di una nuova cultura. Il famoso tempio romano a 24 colonne e i numerosi reperti che provenivano dagli scavi archeologici furono organizzati razionalmente nei giardini monumentali e in un Accademia Ercolanese. Come fu per molte Ville del Miglio d’oro, la Reggia di Portici colse la sfida di pensare non una lacerazione tra natura e cultura, ma, in base a uno spirito illuminista vesuviano, concepire la natura già come artificio, e l’incontro dell’uomo con il freddo e indifferente come qualcosa di già culturale e tecnologico. Come abbiamo visto per Villa Bruno, la Reggia di Portici fu sintomo di un pensiero unico nel suo genere, e ci restituisce, ancora oggi, se non un modello oltre la modernità, certamente, una modernità alternativa. La modernità duosiciliana poteva non essere, come dicono oggi alcuni, un errore ma un’opportunità “due volte critica”, e sospesa dialetticamente tra leggi simboliche e scelte immaginifiche.
Con la Reggia di Portici natura e cultura non sono mai state scisse, ma parliamo sin dall’inizio di orti botanici, opifici ferroviari e di cultura artistica. Con quest’ultima le strade ferrate si intrecciarono con i marmi bianchi di Carrara e le superfici di carta stampata. La facciata imponente, oggi suggestiva soglia della Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, si organizza con ampie terrazze balaustrate, ed è declinata in riferimento a una pianta quadrangolare. L’atrio da “pelle d’oca” è sormontato da nove volte a pilastri, e si trova nel bel mezzo, come “il Bosco”, della Strada delle Calabrie (oggi via Università). Il cortile, più un vertiginoso piazzale che un’insignificante anticamera, è composto sulla sinistra dalla Caserma delle Guardie Reali e dalla Cappella Palatina, ed è collegato direttamente al vestibolo del primo piano, e a quello che fu l’appartamento di Carolina Bonaparte, da un monumentale scalone. Celebri in essa il salottino Luigi XIV e il boudoir della regina Maria Amalia di Sassonia, consorte di Carlo III, con pareti di porcellana finemente decorate (che nel 1866 furono smontate e rimontate nella Reggia di Capodimonte). Il bosco si estendeva dalla zona di Pugliano sino al mare del fortino e del porto del Granatello, e si ripartiva in una parte superiore e una inferiore. Da uno sfondo di giardini all’inglese si segregavano opere scultore ed archeologiche di incredibile rarità e bellezza, come l’Anfiteatro, la Fontana delle sirene, la Fontana dei cigni, il Chiosco di Re Carlo, e un Giardino zoologico (che Ferdinando IV arricchì esoticamente più tardi).
Dove si trova e come arrivare alla Reggia di Portici