Il Padiglione Albania della Mostra d’Oltremare tra storia, architettura e abbandono
Gen 04, 2020 - Marco Ciotola
Esiste un legame, sconosciuto ai più, tra Napoli, Bari e l’Albania. E’ testimoniato dal Padiglione Albania della Mostra d’Oltremare, una struttura pressoché ignorata dalle migliaia di visitatori che ogni anno affollano il polo fieristico di Fuorigrotta nel corso dei suoi numerosi eventi. Trascuratezza ben testimoniata dal drammatico abbandono dell’edificio, che prosegue indisturbato da quasi settant’anni e che non dovrebbe essere più posto sotto silenzio.
Negli anni trenta del novecento, i due principali poli fieristici del sud Italia, la Fiera del Levante di Bari e la Mostra Triennale delle Terre d’Oltremare di Napoli, ospitavano entrambe un padiglione dedicato allo stato schipetaro. Due edifici unici nel loro genere, progettati dall’urbanista fiorentino Gherardo Bosio. Il primo non è più esistente, mentre il secondo sembra resistere solo per essere contemplato nel suo lento e inesorabile disfacimento.
Il Padiglione Albania alla Fiera del Levante di Bari
Inaugurata nel settembre del 1930 dal re Vittorio Emanuele III, la Fiera del Levante fu progettata dal regime fascista per intensificare i rapporti commerciali tra l’Italia e i vicini paesi del bacino mediterraneo, soprattutto quelli del versante centro-orientale. In tale piano strategico, Bari non poteva che rappresentare il porto d’accesso preminente all’espansione commerciale italiana verso est. Costituita da sei padiglioni espositivi, la Fiera ospitava altrettante nazioni, invitate ad esporre prodotti, beni e manufatti delle proprie terre. Di queste, quattro appartenevano alla regione orientale del Mediterraneo (l’Egitto, la Turchia, la Jugoslavia e l’Albania) e due al versante orientale europeo (l’Ungheria e la Cecoslovacchia).
In tale assetto, la partecipazione dell’Albania rientrava in una precisa strategia politica: intensificare i rapporti commerciali del regime con la monarchia di re Zog I, al fine di predisporre la futura occupazione della nazione balcanica, che si consolidò nel 1939 con l’instaurazione del protettorato italiano dell’Albania. Le conseguenze di tale occupazione sono testimoniate anche dalle vicende del padiglione schipetaro della Fiera del Levante. Con l’inaugurazione del 1930, infatti, per l’Albania fu progettato un edificio privo di particolari pregi architettonici, successivamente convertito nel 1939 in un padiglione monumentale ad opera di Gherardo Bosio per celebrare la dominazione fascista dello stato balcanico.
Tra i principali urbanisti italiani della prima metà del novecento, Bosio fu particolarmente attivo nei territori coloniali. A partire dal 1936 la sua attività si svolse quasi completamente in Africa Orientale, soprattutto in Etiopia, dove progettò i piani urbanistici di Dessié, Gondar e Gimma. Nel 1939, in seguito all’occupazione dell’Albania, Bosio fu nominato sottosegretario agli Affari Albanesi e sviluppò i principali edifici italiani di Tirana, come la celebre piazza Vittorio Emanuele III, oggi nota come piazza Madre Teresa. Fu proprio alla luce di tali opere che gli fu affidata la rielaborazione del Padiglione Albania della Fiera del Levante.
Bosio progettò un edificio austero, in pianta quadrata, caratterizzato da una particolare rivestimento in bugnato che conferì alla struttura la forma di una fortezza. La scelta del bugnato non fu casuale, poiché l’architetto si ispirò ad una caratteristica costruzione albanese, la Kulla il cui termine deriva dal turco “kule” e significa “torre”. Le Kulle, infatti, sono delle particolari residenze fortificate che assomigliano a dei torrioni per via della loro estensione verticale.
La peculiare configurazione “fortificata” è legata a motivi difensivi. Le kulle sono edifici tipici del nord dell’Albania e del Kosovo, dunque di terre di confine che nel corso dei secoli hanno subito frequenti attacchi stranieri, soprattutto da parte dei turchi. Pertanto, gli abitanti di tali regioni hanno perfezionato con il tempo la costruzione di queste particolari strutture domestiche “fortificate”, in grado di resistere alle incursioni nemiche.
Il Padiglione Albania alla Mostra Triennale delle Terre italiane d’Oltremare
Forte dell’esperienza barese, Bosio progettò anche il Padiglione Albania della fiera di Fuorigrotta, questa volta affiancato dall’architetto Pier Niccolò Berardi. Com’è noto, la Mostra delle Terre Italiane d’Oltremare si articolava in tre settori espositivi: storico, geografico e il settore della produzione e del lavoro. La sezione geografica rappresentava il nucleo principale della mostra ed era costituita da sei padiglioni con un percorso espositivo che partiva dalla “Mostra dell’Africa Orientale” e terminava proprio con la “Mostra dell’Albania nella Civiltà Mediterranea”.
Anche il padiglione schipetaro della fiera partenopea fu ispirato alla Kulla. L’edifico progettato da Bosio e Berardi si presentava come una struttura in pianta rettangolare, anch’essa in bugnato, e arricchita dalla presenza di statue di aquile romane ai quattro angoli. La facciata principale ospitava un ampio loggiato monumentale costituito da otto pilastri in marmo e ornato da un altorilievo di Bruno Innocenti intitolato “Il trionfo navale celebrato in Roma da Gneo Fluvio”.
Il salone interno, rivestito da lastre di marmo apuano, era impreziosito da ben 180 lacunari in vetro di Murano che conferivano alla struttura una rilevante luminosità.
Il percorso espositivo del padiglione partiva dal salone interno con l’esposizione dell’Artigianato e dell’Industria Albanese e proseguiva al primo piano, attraverso due scaloni in marmo posti alla destra e alla sinistra rispetto all’ingresso. Lo scalone di destra, dominato dall’opera pittorica “Albania Romana” di Primo Conti, conduceva all’esposizione dedicata alla Storia dell’Albania, mentre lo scalone di sinistra, sovrastato dal dipinto “Albania fascista” di Gianni Vagnetti, introduceva alla sezione riservata all’Opera del Regime in Terra Albanese.
Pregevole, inoltre, fu l’esposizione dei materiali archeologici allestita da Luigi Penta. Quattro le statue collocate al piano terra, provenienti dallo scavo archeologico albanese dell’acropoli di Butrinto. Tra queste menzioniamo la scultura della Dea di Butrinto, della quale la sola testa perdurò ai bombardamenti. Il secondo piano ospitava otto teste che dopo la guerra furono custodite per 20 anni dalla Soprintendenza Archeologica di Napoli prima di essere restituite all’Albania nel 1967.
Degrado e abbandono
Dopo appena un mese dall’inaugurazione, la Triennale delle Terre d’Oltremare fu chiusa a causa della guerra. Nel corso del conflitto gli americani occuparono la Mostra per allestirvi il 21st General Hospital e in tale ottica il Padiglione Albania ospitò le sale operatorie dell’ospedale.
Con la fine della guerra, il polo fieristico rimase abbandonato fino al 1948. A partire da quest’anno si diede inizio ad un progetto di riapertura del polo fieristico, che si concluse nel 1952 con l’inaugurazione della mostra sul Lavoro Italiano nel Mondo. Per l’occasione alcune strutture del progetto originario, profondamente danneggiate dai bombardamenti, furono integralmente ristrutturate.
Il rifacimento del padiglione albanese venne affidato dall’architetto napoletano Luigi Cosenza che lo convertì, rispettandone la struttura originaria, nel padiglione del Lavoro Italiano in Oceania. Tuttavia, la nuova mostra non ebbe il successo sperato e chiuse per fallimento. Ciò provocò un secondo abbandono degli edifici, che questa volta si protrasse per oltre quattro decenni.
Alla fine degli anni ’90 furono messe in atto le prime manovre per il ripristino dell’area fieristica, che culminarono nel 2001 con la nascita della Mostra d’Oltremare Spa, gestita da Comune di Napoli, Regione Campania e Camera di Commercio. Da allora sono stati fatti importanti passi in avanti verso la definitiva riqualificazione dell’area con la riapertura di strutture strategiche come l’Arena Flegrea, il Padiglione America Latina, il Laghetto di Fasilides, il Cubo d’Oro, il Palazzo dei Congressi, il Teatro dei Piccoli, il Ristorante con Piscina e il Palazzo degli Uffici (convertito nell’Hotel Palazzo Esedra).
Nonostante gli oggettivi miglioramenti, ancora nulla è stato fatto per gran parte dell’ex sezione geografica. Il Padiglione Albania, come le vicine strutture della Libia, di Rodi e della Civiltà cristiana in Africa, versano in uno stato di drammatico abbandono e degrado. L’ingresso all’edificio albanese, infatti, è interdetto da un muro in cemento ed è gravemente tangibile l’inesorabile cedimento del suo particolarissimo bugnato.
Occasioni perse e proclami
L’ultima notizia relativa al (tentato) recupero del Padiglione Albania risale al 27 giugno 2015, data di presentazione del “Grande Progetto della riqualificazione urbana della Mostra e dei suoi Beni Culturali e Architettonici”, un piano di 65.5 milioni di euro di fondi europei (Po Fesr 2007-2013) per il recupero di molti edifici del polo fieristico. I lavori sarebbero dovuti iniziare a luglio 2015 con i primi due lotti: la ristrutturazione della Torre delle Nazioni (l’ex Torre del Partito Nazionale Fascista) e la riqualificazione degli ingressi alla Mostra di viale Kennedy e via Terracina.
Luigi de Magistris, su Facebook, salutò entusiasticamente l’avvio dei lavori, dichiarando che tra i fondi a disposizione erano compresi anche quelli necessari per il «restauro dei padiglioni monumentali Libia, Rodi e Albania per i quali sono impegnati 16 milioni di euro: questo segmento del Grande Progetto sarà attivato nel novembre del 2016 e i lavori saranno conclusi entro il 2020». A ciò, il sindaco aggiunse: «Da decenni si parlava di tutto questo. Noi lo facciamo, tra mille problemi e tanti ostacoli. Non restituiamo al mittente i fondi europei non spesi come fanno altri».
A gennaio 2020 nessuno degli interventi entusiasticamente annunciati nel 2015 sono stati realizzati, né verranno ultimati a breve. A confermarlo è la Delibera della Giunta Regionale n. 338 del 14/06/2017 nella quale s’apprende che la mancata attuazione del grande progetto è dovuta alla «necessità di procedere alla valutazione di impatto ambientale, originariamente non prevista». Alla luce di tale “imprevisto”, l’intero piano di riqualificazione è stato ritirato dai fondi europei previsti.
Che fine hanno fatto, allora, gli interventi proclamati nel 2015? Solo due sono stati inseriti nei successivi fondi (Por Fesr 2014-2020): la ristrutturazione della Torre delle Nazioni e la riqualificazione degli ingressi alla Mostra d’Oltremare. Tutto bloccato, invece, per quanto concerne il recupero dei padiglioni dell’area geografica, compreso quello dell’Albania il cui destino è rinviato, come si legge nella delibera: «a successivi – quali? – provvedimenti».
Alla luce di ciò, riteniamo che il sindaco de Magistris abbia le sue buone ragioni per affermare di «non restituire come fanno gli altri» i fondi europei al mittente, ma dovrebbe altresì riconoscere di cadere spesso in proclami che – proprio come fanno gli altri – non è poi in grado di mantenere.
Bibliografia
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– L’Abbate M. e Moscardin V., I padiglioni delle grandi esposizioni mediterranee del Ventennio come strumento di conoscenza: il caso dell’Albania in Belli G., Capano F., Pascariello M. I. (a cura di), La città, il viaggio, il turismo. Percezione, produzione e trasformazione, Napoli 2017.
– Prisco G., Provvedimenti di tutela, danni e restauri al patrimonio archeologico negli anni di guerra a Napoli, in Napoli Nobilissima, Fascicolo II, Maggio-Agosto 2018, Napoli.
– Stenti S. e Cappiello V. (a cura di), Napoli guida e dintorni. Itinerari di architettura moderna, Napoli 2010.