Alle 9:59 dell’11 settembre 2001 la torre sud del Word Trade Center di New York rovinò al suolo in circa 9,2 secondi; 29 minuti dopo la torre nord la seguì, crollando in circa 10 secondi. In contraddizione ad ogni legge fisica (tra cui quella galileiana di caduta dei gravi, la quale computa il tempo che impiega un oggetto a cadere da una certa distanza in caduta libera), costanti dialettiche e storiche, torsioni fantastiche, miracolose e straordinarie delle regolarità contingenti dell’empiria, due grattacieli di 110 piani, dalle soluzioni strutturali e architettoniche d’avanguardia, 200.000 tonnellate di acciai speciali, 552.500 metri cubi di cemento, 103 ascensori, 43.600 finestre, 60.000 tonnellate di sistemi di condizionamento, un’antenna televisiva di 110 metri, – un complesso costruito intorno a due nuclei gemelli di 27 x 41 metri, comprensivo di 47 colonne rettangolari in acciaio di 1 metro x 41 centimetri di spessore -, secondo la maggior parte degli storici accreditati, sono stati cancellati dalla Storia a causa di 37.850 litri di carburante.
Inutile dire, in base alle fonti, alle testimonianze, e al “buon senso”, che queste tesi sono una delle più eclatanti bufale che la ragion di stato, nell’ultima modernità, è riuscita a costruire e a dare a bere ai più. A questo proposito Adolf Hitler, spesse volte, amava dire “più grande è una menzogna, più uomini la crederanno”.
Ma cosa centra la catastrofe delle Twin Towers con il Palazzo Tarascone a Resina di Ercolano? Centra nella misura in cui, provando a compiere un ragionamento, per certi versi assurdo, per analogia, il più delle volte gli edifici crollano non per un vuoto finalismo intrinseco alla meccanica delle cose naturali, ma per il loro portato simbolico, umano; la maggior parte delle volte ville e palazzi non vengono consegnati alla grande storia per l’inesorabile decadimento della pietra, o per la freddezza di ciò che è fisica, ma in obbedienza a un unico e concertato progetto politico, a un particolare tipo di consenso diffuso che il più delle volte traccia, come un filo rosso, lo sfumato limite tra politica paranoica e paranoia collettiva (Tarizzo 2007).
Il 23 aprile scorso a via Cuparella è stato, sintomaticamente, vietato il transito alla quotidianità della cittadinanza ercolanense di intraprendere ciò che le appartiene; tutto ciò, giustamente, affinché si salvaguardasse l’incolumità di coloro i quali si sarebbero ritrovati a passare nei pressi della fabbrica pericolante del Palazzo, appartenente al novero delle Ville Vesuviane, ubicato al numero 68 di corso Resina a Ercolano: Palazzo Tarascone. A causa delle precarie condizioni statiche dell’arcata aggettante alla strada i fanciulli dell’Istituto comprensivo “Iovino-Scotellaro”, e tutta la cittadinanza, perdono un’arteria della loro città interdetta.
A ridosso delle interrogazioni parlamentari in merito al caso d’Elboeuf e delle celebrazioni per l’inaugurazione della nuova edizione del Festival delle Ville vesuviane, vogliamo rendere giustizia ancora una volta dell’ispirazione con cui è nata questa rubrica, che non vuole solo ricordare gli antichi fasti e descrivere lo stato decadente delle cose presenti, ma interpretare le esperienze della nostra terra, di questa nostra “Nuova Europa”, per trarne insegnamento e fortezza.
Continua inesorabile lo scempio della nostra identità tra i cicalicci geriatrici, di coloro che non si schiodano dalle poltrone, e l’idiozia delle giovani generazioni, letteralmente “fatte” dalla politica degradante che ha caratterizzato i tempi recenti. Ciò non per il solito disfattismo, ma in seguito la storica e seriale campagna di discredito nei confronti del meridione e della cultura mediterranea. Andrebbero ricapovolte le carte geografiche, e scambiati il Nord con il Sud e il Sud con il Nord (come nelle antiche raffigurazioni).
Attualmente, come già da decenni, Napoli e il Mezzogiorno si rendono protagoniste di un ripensamento di ciò che è la Civiltà europea, e l’alternativa che essa può essere nel prossimo futuro. Operazione imprescindibile di questi impegni è il rintracciamento di linee guida del passato, di quegli esempi di profonda saggezza e modernità. La modernità duosiciliana è da interpretare, nelle sue soluzioni, né come retrograda né come perdente, né come un errore né come una passione in cui si sconsiglia nell’indulgere, ma come una progettualità e un finalismo politico universale e alternativo a quello dell’economia neo-liberale. La scomparsa delle Ville vesuviane è un atto criminale pianificato dalle istanze sociali al soldo del capitale, e di tutti coloro che riducono il patrimonio artistico e culturale a un mercato della cultura, a qualcosa da portare a profitto per l’amore del e per il profitto. Contro questa ambigua e sottilmente corrotta visione, tanto presente nelle vecchie forze politiche quanto in quelle nuove (dei grilli parlanti e delle sue ancor più aberranti imitazioni), il recupero di un nuovo meridionalismo, non più italiano ma europeo, deve essere riscoperto. Il Palazzo Tarascone, la Villa Pignatelli di Montecalvo, Villa d’Elboeuf, eccetera sono le immagini dialettiche che possono aprirci a un nuovo genere di esperienza collettiva, culturale e politica, critica e polemica, in virtù di una nuova pienezza.
Risalente al 1740, filiazione del conte Raffaele Tarascone, dell’architetto Sanfelice e delle sue maestranze, il Palazzo Tarascone è un buon esempio di architettura europea, stratificata, benjaminana, che su corpi di fabbrica risalenti al passato rielaborò un’interessante risveglio della civiltà e dell’ingegno duosiciliano.
La facciata era abbastanza modesta, addirittura, per certi versi anonima, ma curiosa e particolare nella formazione ad arco che caratterizzava, e continua a farlo, la copertura di quella che è oggi “a’ Cuparella”, un percorso che corre in tutto il perimetro del Palazzo. Insolita e originale è la pianta ottagonale e il complesso di viali che intessono il giardino, dovuta più che altro alla conformazione del terreno edificabile, il quale sconnette il viale principale da quelli subalterni. Il cortile ottagonale è, ed era, preceduto da tre elementi: un vestibolo voltato, un successivo cortile rettangolare e stretto, e una seconda fase voltata. Le pareti del cortile sono ricche di decorazioni, di cui i vani delle aperture recano timpani ricurvi alternati da coppie di timpani triangolari. Le lesene angolari all’ottagono sono sormontati da mascheroni in stucchi. Una cornice disposta al penultimo piano sottolinea la pretesa della struttura di conquistare più importanti altezze. Ai lati dell’ingresso dalla strada colpisce quella che è ormai solo una delle due colonne che la caratterizzavano, l’espressione più adatta a rendere lo stato di assoluta precarietà del Palazzo; ma forse non tanto come il nuovo rischio di crolli.
Quali saranno i profili riconoscibili di quella fitta trama di relazioni umane che perseguono il folle progetto di costruire un presente senza passato e senza futuro, l’atto criminale che ci rende irriconoscibili nei più remoti recessi della nostra carne?
Dopo la Villa d’Elboeuf e la Villa Pignatelli di Montecalvo cosa dovremo perdere prima di disvelarci a una nuova coscienza critica e di militanza popolare? Cosa occorre affinché il popolo dei molti possa arginare e abbattere l’oligarchia dei potenti, della classe dominante? Chi presterà ascolto ancora una volta? Chi sarà chiamato ad agire ancora una volta?
Indirizzo: Corso Resina n. 68, Ercolano
Stato: pericolo di crollo