Rinfrancata ed emancipata dal suo retaggio tardo-barocco, attraverso riscritture rococò e neoclassiche, la Villa Starita è nel suo pallore winckelmanniano, e nei suoi grigiori di disfacimento ruderale, un’altra tra le Ville Vesuviane che più si prestano alla campagna di denuncia del deteriore interesse privato e di una maggiore intraprendenza da parte delle istituzioni pubbliche per la salvaguardia e la conoscenza del patrimonio storico e artistico del Miglio d’oro.
Sfogliata, e decaduta nelle sue fattezze architettoniche, la villa di Portici appare, a chi l’osserva più da vicino e la penetra nei suoi adombramenti e formule di pathos, come una delle più sontuose cornucopie di citazioni e sopravvivenze, soglie critiche e finestre dialettiche su alcuni tra gli stili più capricciosi, scherzosi, critici e polemici della cultura vesuviana, la quale nell’alambicco archiscultoreo dei palazzi e delle ville del Miglio d’oro restituiscono l’essenza polimorfa di un essere antico, e nello stesso tempo neoterico, mediterraneo ed europeo delle tradizioni vesuviane. In tantissime forme il tardo barocco e il rococò vesuviano è permeabile alle dialettiche dominanti nella nostra contemporaneità, soprattutto con l’intima fragilità di un narcisismo ferito, privo di alcuna fede o certezza, che caratterizza l’Europa attuale.
La perfettibilità della piega barocca, sembra ed esprime, oggi come all’ora, il sintomo del ritorno a una stabilità, un equilibrio rinnovato. Al centro di una comunità incerta, ferita e spaesata, instabile nelle realtà sociali, inconsistente nel performativismo politico, ingannevole e relativistica nella promiscuità di una multiculturalità priva di un senso proprio, la Villa Starita si sforza di rintracciare un proprio luogo, una propria dimensione, una propria ispirazione.
Il nostro articolo sposa il desiderio di riconoscimento di questo stato di cose invisibile, effettua la ricognizione in un crisma di serietà e rigore, identità e coerenza, le costanti architettoniche che caratterizzano questa Villa e la storia del popolo che la seguita. Mai come in questo caso Aby Warburg è una guida nella selva delle sopravvivenze simboliche e dei rimaneggiamenti immaginari. Ancora una volta, e al di là delle personalità di spessore che l’hanno avuta in proprietà (come il Principe di Calvaruso, il giurista liberale del 1848 napoletano Enrico Pessina, Emilio Marullier, Luigi Astarita), riconosciamo alcune costanti dialettiche cariche di un pathos stratificato storicamente.
La facciata imponente e gloriosa di via Farina di Portici contrae la visione subito intorno il portale d’entrata, il quale con un gusto sanfeliciano coniuga il senso dell’incontrovertibile gravità della pietra nera del Vesuvio con la sua plasticità e potenzialità espressiva. Nella totalità il portale è partito da paraste a fascio, terminanti in un arco ribassato spezzato da un gioco di volute che sorreggono la chiave di volta di uno stemma gentilizio. L’architrave sorregge il balcone del piano nobile. Il piano terra è tutto cassettonato e tuttavia, nelle sue rigide e quadrate geometrie, transitivo alle slanciate coperture dell’ingresso (con due volte a crociera e a vela).
Il prospetto posteriore non è da meno rispetto alla facciata principale. A via Pessina di San Giorgio a Cremano affaccia un portale pendulo con volute coraggiose. La visione, sia a via Pessina sia a via Farina, è segnata da un’alternanza di balconi e finestre dall’alto valore architettonico , il quale meriterebbe studi ulteriori più approfonditi. L’arco trionfale ci inaugura a un giardino, ricco di riferimenti romantici e neoclassici, arredato da una vasca in piperno, e fino al 1944 da finti ruderi pompeiani, un casino, una caffeaus.