Il Miglio d’oro è quel tratto di strada che parte da San Giovanni a Teduccio ed arriva fino ai confini di Torre Annunziata.
L’antica Strada Regia delle Calabrie, che vede affacciarsi protagoniste alcune delle meravigliose ville settecentesche, costruite nei comuni di Portici, Resina, S. Giorgio a Cremano e Torre del Greco.
122 ville vesuviane realizzate in barocco napoletano dai migliori architetti dell’epoca, a seguito della richiesta da parte della regina Maria Amalia di Sassonia, mossa al re Carlo di Borbone, di realizzare la loro nuova residenza estiva nel casale di Portici, in prossimità del porticciolo del Granatello.
La leggenda sembra narri di una giovane Maria Amalia che, presso la villa paterna a Dresda, ebbe modo di ammirare due splendide statue indicate come “Ercolanesi”, acquistate dal padre e provenienti da Ercolano, città sotterrata dalla lava del 79 d.C. Da lì la maturazione di un’innata passione per l’archeologia e successivamente, il matrimonio con Carlo III di Borbone e la proposta di far costruire per lei un “palazzo di delizia”, ove trascorrere i periodi estivi. La scelta di Portici, poi, non fu un caso.
La sua fama appartiene ad epoca lontana: vi soggiornarono Petrarca e Boccaccio, re, ambasciatori, dignitari, artisti, provenienti da ogni dove. Il paesaggio era straordinario, l’aria salubre, le campagne molto fertili; solo il vulcano poteva incutere timore, ma non a Carlo di Borbone, che acquistò terre e palazzi nella zona, con l’idea iniziale di creare una vasta tenuta, che diradasse dal Vesuvio al mare, per dedicarsi alla tanto amata caccia alle quaglie.
Nel 1738 prendono il via i lavori di ristrutturazione degli edifici già esistenti, ma pian piano si fa avanti l’idea di edificare una vera e propria reggia. Una “vita nuova” per Portici ha inizio in quel momento. Un periodo d’intensa attività artistico-architettonica lungo tutto il tratto di costa vesuviano. Compaiono man mano, attorno alla residenza reale, lussuose ville cortigiane rococò. Edifici spesso disposti in successione, al fine di creare una sorta di quinta urbana, secondo un asse ideale che collega il Vesuvio al mare. Il re sancisce il privilegio dell’esenzione fiscale, vantaggio che alletta la nobiltà e il clero partenopei a stabilirsi nella campagna vesuviana o lungo la zona costiera ai piedi del Vesuvio.
Viene alla luce un complesso architettonico unico al mondo per quantità e bellezza, che attira facoltosi committenti all’economia del Regno di Napoli, facendo meritare il nome di Miglio d’Oro al tratto di strada che costeggia le nobili costruzioni.
Ville di delizia, residenze suburbane lontane dalle città, costruite per il solo piacere della nobiltà nei periodi di villeggiatura. Costruzioni sontuose, decorazioni architettoniche di pregio, ma sopratutto un unico elemento imprescindibile: il giardino.
I giardini delle ville del Miglio d’oro o meglio i parchi, vengono commissionati con l’intento di creare un luogo di delizie e di otium per i nobili partenopei, che potevano così, dedicarsi allo svago e diletto nel pieno godimento della natura, della conversazione cortese, dell’arte, della musica, della poesia, all’insegna della raffinatezza e del buon gusto.
Una scenografia a cielo aperto, una quinta teatrale naturale, dove architettura, giardino, Vesuvio e mare si fondono.
Le ville di delizia diventano dirette espressioni della raffinata cultura della corte partenopea dell’epoca, non ostica agli ideali illuministici, sostenuti dallo stesso re. Disegnare viali diventa una vera e propria moda. Lunghi, sinuosi, geometrici, costeggiati da piante ornamentali di ogni specie, fontane imponenti ed austere, vasche e giochi d’acqua, tutto a voler manifestare il potere del nobile proprietario.
La Corte Borbonica aveva da tempo promosso lo Studio della Botanica, che trova un’ulteriore, interessante espressione, proprio nella progettazione dei bei giardini ornamentali.
Aiuole, piccoli boschetti anche detti poggetti, i padiglioni, i gazebo e gli esclusivi “caffeaus”, una sorta di piccoli capanni costruiti per viverci in quietudine una o due ore al giorno, con mobilio di canapè, finestrino e cupolino, pensati e realizzati in prospettiva di panorami adagiati sotto il sole della Baia e la brezza del Golfo.
Una curiosità: tra le specie più diffuse negli anni della rinascita del Miglio d’Oro, comparve la camelia del Giappone, fiore di un arbusto sempreverde della famiglia delle theaceae. Venne importata su suolo vesuviano con l’inganno che producesse tè, solo più tardi si distinse come pianta ornamentale di gusto, eleganza e raffinatezza.
“Pochi luoghi al mondo possono vantare una così favorevole temperie come quello che l’aristocrazia partenopea del Settecento scelse, per il suo soggiorno estivo, tra le pendici del Vesuvio e il mare” – scrive Roberto Pane nel suo lavoro dedicato alle ville vesuviane. “Il tracciato dei viali, in asse con le ville, sembra essere stato spontaneamente suggerito dal lieve digradare del suolo verso le spiagge; e similmente anche la disposizione degli alberi, affinché, al di sopra delle verdi discese, si potesse scorgere, da un lato il Vesuvio, dall’altro una ininterrotta striscia azzurra all’orizzonte. La felicità di questo ambiente era tale da indurre a dimenticare le minacce del vulcano, mentre più attiva si faceva la devozione per il patrono San Gennaro, popolando le logge, i portali e le facciate con busti benedicenti…”