Fuoco, fame e barbara distruzione a Gaeta: così morì il Regno delle Due Sicilie
Mar 17, 2017 - Antonio Gaito
Assedio di Gaeta, l'esplosione della fortezza
Mosso dalla volontà di risparmiare la sua amata capitale dalle distruzioni dei bombardamenti e dietro l’interessato suggerimento del prefetto di polizia, Liborio Romano, Francesco II re delle Due Sicilie decise di riparare a Gaeta, strategicamente preziosa, per giocarsi in una partita senza possibilità di replica, la sopravvivenza del suo Stato, minacciato da un’invasione insensata ed illegittima.
Il 6 settembre del 1860 il sovrano lasciò Napoli. Non vi avrebbe fatto più ritorno. Il giorno seguente Giuseppe Garibaldi fece il suo ingresso nel capoluogo campano e Vittorio Emanuele II, ponendosi a capo del suo esercito, iniziò la discesa nella penisola italiana, diretto proprio a Gaeta, teatro di un assedio sanguinario ed inumano.
Fin dagli albori lo scontro tra le due compagini militari fu impari. Il grosso dell’esercito borbonico era sulla linea del Volturno guidato da generali che, in buona sostanza, avevano già deciso di sposare la causa piemontese. I soldati di Vittorio Emanuele II, oltre a godere dell’ovvia posizione di vantaggio della quale godono gli assedianti, potevano fare affidamento sui cannoni rigati che garantivano una maggiore e più devastante potenza di fuoco.
La difesa di Gaeta, ultimo baluardo delle Due Sicilie, fu eroica ed i fedelissimi di Francesco II non esitarono a sacrificare le loro stesse vite sull’ara della patria e della libertà. Memorabile anche l’atteggiamento dei reali verso il loro popolo, ed in particolar modo della Regina Maria Sofia di Baviera, che mossa dall’amore per la sua gente e sprezzante del pericolo, non esitò ad accantonare corona e cerimoniali per vestire i panni di una crocerossina ante litteram al sostegno di feriti ed ammalati.
Le ostilità iniziarono, di fatto, il 13 novembre 1860. Il corpo d’assedio dell’esercito piemontese era composto da: 18.000 soldati, 1.600 cavalli, 66 cannoni a canna rigata e 180 cannoni a lunga gittata. I bombardamenti furono, da subito, copiosi ed incessanti ed avevano come obiettivo primario le 8 batterie sulle quali erano distribuiti i 300 cannoni borbonici.
Nonostante la posizione di svantaggio, gli assediati riuscirono a contenere a lungo l’assedio e delle squadre del Battaglione Cacciatori riportarono alcuni successi militari, in degli scontri a terra, che risollevarono il morale; inoltre la presenza di diverse navi straniere, soprattutto francesi nella rada di Gaeta, garantì l’approvvigionamento di viveri e munizioni. La fortuna però decise di voltare le spalle agli assediati, che oltre ai cannoneggiamenti, dovettero fare i conti anche con un’epidemia di tifo petecchiale.
L’accordo, poi, tra Cavour e Napoleone III fece il resto. In cambio dei comuni di Mentone e Roccabruna, l’imperatore dei Francesi s’impegnò a richiamare le sue navi, fu così che oltre a dover fronteggiare i cannoni, si aggiunse il dramma del blocco navale. I Piemontesi accerchiarono, via mare e via terra, la città.
L’idea era tanto semplice quanto crudele: se Gaeta non fosse stata presa per i meriti dell’esercito sabaudo, sarebbe caduta per fame. Dal quel momento i bombardamenti non solo si intensificarono, ma coinvolsero anche obbiettivi civili come case, chiese ed ospedali.
Questa operazione ebbe un doppio fine: abbattere il morale degli assediati e trafiggere il buon cuore di re Francesco II che mai avrebbe permesso spargimento di sangue civile ad oltranza. Gaeta si trovava stretta in una morsa micidiale, bombardata da mare e da terra e senza rifornimenti di nessun genere, abbandonata al suo destino, proprio come gli alleati europei di Francesco II che lasciarono solo l’ultimo Borbone di Napoli.
Nel complesso l’assedio durò 102 giorni, 75 dei quali trascorsi sotto il fuoco sabaudo. Le cifre ufficiali parlano di 826 morti, 569 feriti e 200 dispersi tra le file borboniche e di 46 morti e 321 feriti tra i Piemontesi, anche se, ancora oggi, manca un conteggio ufficiale per constatare con esattezza quanti civili persero la vita.
Il 5 febbraio venne colpito il magazzino delle munizioni della batteria S. Antonio, l’esplosione fu tale che causò una breccia all’interno delle mura. L’occasione per i Piemontesi sembrò irripetibile, ma ancora una volta la valorosa difesa di ciò che restava dell’esercito borbonico, decimato dai tradimenti e dai corrotti, e dei civili procrastinò il colpo di grazia che, però, sopraggiunse dopo sei giorni durante i quali, se possibile, le cannonate risuonarono con intensità maggiore.
Alla luce di questi eventi il comandante della piazzaforte di Gaeta, per evitare altre sofferenze ai civili ed ai soldati, decise di firmare la capitolazione. Essa prevedeva: per i militari, l’onore delle armi, per i reali e per il piccolo gruppo di aristocratici al seguito l’esilio a Roma. Anche quando la decisione di firmare la capitolazione venne resa nota, Cialdini continuò a bombardare l’ultima roccaforte borbonica, fino al momento effettivo della firma che sopraggiunse due giorni dopo. Il 13 febbraio, alle ore 18.15, entrò in vigore il “cessate il fuoco”. Il Regno delle Due Sicilie non esisteva più.
Fonti
– De Sivo Giacinto, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861.
– Di Lauro Raffaele, L’ assedio e la resa di Gaeta.
– Quandel Pietro, Giornale della Difesa di Gaeta. Da Novembre 1860 a Febbraio 1861