Quando si pensa ai piatti tipici della tradizione romana, inevitabilmente, si pensa a un fumante piatto di pasta alla carbonara: spaghetti, ancor meglio bucatini, conditi con uova cremose quasi crude, percorino, pancetta croccante e tanto pepe. Quindi potrebbe risultare assurdo affermare che uno dei piatti più caratteristici di Roma, servito dai ristoranti di Trastevere a qualunque casa romana che si rispetti, sia nato a Napoli.
L’ipotesi parte dal trattato del 1837 “Cucina teorico-pratica” di Ippolito Cavalcanti, napoletano, in cui viene descritta una ricetta identica per preparazione ed ingredienti, all’attuale carbonara. Come unica differenza c’è l’assenza del guanciale ma, come sappiamo, le ricette si evolvono nei secoli e, così come la pizza è nata senza mozzarella, la carbonara può essere nata senza pancetta! Una prova non del tutto assoluta, ma sta di fatto che, nel 1930 nel manuale più accreditato di cucina romana di Ada Boni, non appariva nessuna ricetta somigliante a quella della carbonara. Quindi, prima del 1930, la cosa più simile al piatto in questione era proprio la ricetta del Cavalcanti, ricetta che i romani non conoscevano.
Anche le circostanze storiche rendono possibilissima la paternità napoletana del piatto romano. Sicuramente nella Napoli del 1946, in molte osterie vicine al porto veniva servita la pasta alla carbonara. La Napoli del 1946 era anche la città in cui stanziavano i soldati americani sbarcati per la liberazione, soldati che ricevevano dalla madrepatria la famosa “razione K”, composta maggiormente da bacon (la nostra pancetta) e uova liofilizzate. Questa razione K veniva spesso “ottenuta” dai napoletani e commercializzata sul mercato nero del tempo: un napoletano ingegnoso potrebbe aver deciso di sfruttare gli ingredienti principali di quella “americanata” unendoli in un piatto di pasta. Oppure la carbonara potrebbe essere nata come una trovata degli “spaghettari” del tempo per venire incontro ai gusti degli occupanti americani che mal gradivano la pasta asciutta che veniva servita in quei posti.
Ecco la ricetta della “carbonara” di Ippolito Cavalcanti, che egli chiama Ordura di tagliolini:
“Farai la pasta di tagliolini con mezzo rotolo di fior di farina (per darti sempre la proporzione) li lesserai appena, sgocciolandoli benissimo, e li condirai, con once sei di parmeggiano, o caciocavallo, e torli d’ovi bene battuti, passando tutto lentamente per foco in una casseruola, rivoltandoli dolcemente, onde il formaggio, e l’ovi entrano in cottura. Farai un pavimento di fior di farina sul pancone, dove ci situerai li tagliolini in tante piccole porzioni da formare braciolette; a ciascuna di queste ci porrai un’imbottitura di un ragungino, o di magro, o di grascio, che terrai pronto, e poi adatterai nella palma della mano una porzione di quella, e diligentemente cercherai di chiuderla a forma di una bracioletta riavvolgendola nel fior di farina, poscia nel battuto d’ovi e poi nel pan gratto, friggendole color d’oro, accomodandole nel piatto con tovagliolo al disotto”.