Andare a Capri ed evitare o dimenticarsi di visitarla è un terribile errore. La Grotta Azzurra è nota in tutto il mondo per la particolare colorazione azzurro intenso del suo interno e per il caratteristico colore bianco argenteo che assumono gli oggetti immersi nelle sue acque. È raggiungibile via terra da Anacapri o via mare partendo dalla Marina Grande su piccole imbarcazioni a remi. Conosciuta già dagli antichi romani, si pensa che ai tempi di Tiberio, la si utilizzasse come ninfeo marino. Infatti, lungo le pareti della grotta, collegata a una villa tramite un passaggio andato distrutto, erano disposte numerose statue romane rappresentanti creature marine. Fu riscoperta solo nell’Ottocento grazie al pescatore caprese Angelo Ferraro che vi portò in visita il pittore Ernst Fries e lo scrittore August Kopisch. Quest’ultimo ne rimase così colpito che decise di inserire nel suo “Annuario Italia”, pubblicato nel 1838, un capitolo intitolato “La scoperta della Grotta Azzurra”. In realtà fu poi grazie a Hans Christian Andersen che, con il suo romanzo “L’improvvisatore”, pubblicato nel 1835, fece conoscere la Grotta in tutta Europa. Addirittura circa cinquant’anni dopo Ludwing II di Baviera, a Lindherof, in un uno dei suoi castelli da favola simile a quello di Neuschwanstein che si dice abbia ispirato “La Bella addormentata nel bosco”, fece ricostruire meticolosamente il luogo caprese. Egli lo chiamò “Venusgrotte”, la grotta di Venere. Si narra che per ottenere la giusta tonalità delle pareti spedì sull’isola italiana il suo architetto per ben due volte. Alla fine le sfumature di azzurro furono talmente apprezzate che la formula dell’indaco sintetico fu brevettata.
Ma per quale motivo la celebre Grotta Azzurra, pur essendo conosciuta dai pescatori dell’isola, fu abbandonata dopo l’epoca romana? Secondo alcune leggende vi si rifugiavano lì sirene, diavoli e spiriti che intimorivano chiunque osasse entrarvi. Lo spiega lo stesso Kopisch che racconta come “alcuni preti sarebbero entrati, nel Seicento, all’interno della grotta per scacciare tali spiriti e ne sarebbero fuggiti, avendo l’impressione di trovarsi in un tempio con un altare maggiore, circondato da simulacri”. Indubbiamente i resti delle statue romane, raffiguranti Dei del mare e creature misteriose del mondo sommerso, aiutarono a spaventare i pescatori e i capresi che riuscivano a raggiungere questo magico luogo. Per altri, la Grotta sarebbe stata invece luogo di rifugio delle Nereidi.
Queste erano delle ninfe figlie di Nereo, metà uomo e metà pesce, e rappresentavano gli aspetti piacevoli del mare. Esiodo, nella sua “Teogonia”, riporta che ne erano circa cinquanta, per Omero, ne erano invece trentatré. Avevano i capelli ornati di perle e si muovevano su delfini, tartarughe giganti o su carri trainati da Tritoni. Si spingevano in superficie solo per aiutare i marinai che avevano perso la rotta. Tra le Nereidi più celebri si ricordano Teti, che sposò Peleo e diede alla luce l’eroe Achille. Galatea, celebrata soprattutto nel Cinquecento per aver trasformato il sangue del giovane di cui era innamorata, Aci, in una sorgente dopo che quest’ultimo era stato ucciso dal ciclope Polifemo, innamorato non corrisposto della ninfa. E Anfitrite, moglie di Poseidone e madre di Tritone, che trasformò una delle amanti dello sposo nel celebre mostro marino chiamato Scilla.
Fonti: Agnese Palumbo,Maurizio Ponticello, “Misteri, segreti e storie insolite di Napoli”, Roma, Newton Compton, 2012
Miriam Cipriani, “In viaggio con Wagner: Sulle orme del Parsifal”, Roma, Absolutely Free, 2012
Claudia Valeri, “Marmora phlegraea”, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2005
Eric M. Moormann,Wilfried Uitterhoev, “Miti e personaggi del mondo classico”, Milano, Mondandori, 2004