“Il pazzo è un sognatore sveglio” sosteneva Sigmund Freud, uno dei più importanti neurologi e psicoanalisti mai esistiti, nonché fondatore della psicoanalisi. Eppure non sempre i malati di mente sono stati trattati come sognatori. Per i Greci i pazzi erano coloro che perdevano la dignità, nel Medioevo i folli erano posseduti dal demonio e per questo venivano condannati al rogo, nel Cinquecento erano visti semplicemente come diversi e addirittura Erasmo da Rotterdam nel suo “Elogio alla follia” ipotizzò che un pizzico di pazzia fosse necessaria per comprendere il significato più profondo della vita. Nel Seicento per follia si intendeva la componente creativa e sensibile dell’uomo, un carattere assolutamente positivo come si evince dal “Don Chisciotte” di Cervantes. Nel Settecento i matti iniziavano nuovamente a essere considerati negativamente e a essere rinchiusi nelle carceri. È alla fine di questo secolo che si iniziò a pensare a come curare, in appositi centri, coloro considerati malati di mente. Infatti, per tutto il XIX secolo, in Europa, si pensò che l’unica struttura in cui si potessero aiutare i malati di mente fosse il manicomio. Se inizialmente questo problema fu affrontato soprattutto in Francia e Inghilterra, agli inizi dell’Ottocento fu preso in considerazione anche dal Regno delle Due Sicilie, che ne fece uno dei suoi grandi primati.
Nel 1813 Gioacchino Murat, nominato re di Napoli da Napoleone cinque anni prima, fondò ad Aversa la “Real Casa de’ Matti”, il primo ospedale psichiatrico italiano. Il francese, che si ispirò alle nuove teorie psichiatriche propugnate nella Madre Patria da Pinel, per costruire il complesso utilizzò i locali del soppresso convento di Santa Maria Maddalena. L’Ospedale divenne un punto di riferimento per l’organizzazione dei successivi manicomi italiani e anche stranieri. La fama del complesso si diffuse sempre più grazie a una serie di terapie terapeutiche intraprese da Giovanni Linguiti. Quando i Borbone tornarono a Napoli, come decretato dal Congresso di Vienna nel 1815, il manicomio fu soprannominato “Real Morotrofio” e diventò sempre più importante al punto che re Ferdinando IV vi portava i nobili in visita. L’umanista e storico Gaetano Parente scriveva che questi rimanevano “attoniti del vedere per esempio un biliardo fra i pazzi, dell’udirli a suonare e cantare e talvolta recitar commedie e conversare con chicchessia affabilmente; non più catene, (…) alla reclusione antica sostituito il beneficio della vita attiva ed i giocondi passatempi e le salubri passeggiate per l’aprica campagna”.
Fonti: Candida Carrino, Nicola Cunto, “La memoria dei matti”, Napoli, Filema, 2006
Giuseppe Francioni Vespoli, “Itinerario per lo regno delle due Sicilie”, Napoli, Stamperia Francese, 1828
Alessandro Marra, “La Società economica di Terra di Lavoro”, Milano, FrancoAngeli, 2006
Adriana Caprio, Anna Giordano, Marcello Natale, “Terra di lavoro”, Napoli, Guida, 2003