È tra le più antiche costruzioni angioine di Napoli, introduce al Borgo degli Orefici ed è situata nei pressi dell’antico Campo Moricino, l’odierna piazza Mercato. La chiesa di Sant’Eligio Maggiore si trova nell’omonima via. Fu costruita nel 1270 in onore dei santi Eligio, Dionisio e Martino, per volere di Giovanni Dottun, Guglielmo di Borgogna e Giovanni de Lionsper, tre francesi frequentatori della corte di Carlo I d’Angiò. Protetta e frequentata dai reali angioini e aragonesi, la chiesa fu dopo poco affiancata da un ospedale. Per questa vicinanza tra le due strutture, nel XVI secolo, don Pedro de Toledo decise di rendere il complesso religioso un educandato femminile dove poter istruire le giovani che volevano apprendere l’arte della medicina. Successivamente, durante il decennio francese (1805-1815), la chiesa divenne anche una caserma. Tornò ad essere un luogo di culto nel 1815. Durante le Seconda Guerra Mondiale, il primo marzo 1943 la chiesa di Sant’ Eligio fu colpita da una bomba che la danneggiò gravemente. È per questo che, la struttura che vediamo oggi è molto diversa dall’originale poiché è l’insieme dei rifacimenti che si sono succeduti nel tempo e che sono iniziati anche prima del Novecento. In particolare, il soffitto ebbe due importanti restauri nel 1490 ad opera di Nicolò Tommaso da Squillace e un altro, nella prima parte del XIX secolo realizzato da Orazio Angelini.
Si può entrare nel complesso da un ingresso laterale attraverso un portale strombato in stile gotico francese, ricco di motivi naturalistici. L’interno, in tufo, presenta tre navate e diverse cappelle laterali. Fra le principali opere conservate nella chiesa, si segnala un dipinto di Massimo Stanzione, uno dei più importanti esponenti della pittura barocca partenopea, situato sull’altare e rappresentante i tre santi ai quali è dedicata la chiesa. Vi sono poi il “Giudizio Universale” dell’autore fiammingo, Cornelis Smet, una copia del dipinto di Francesco Solimena raffigurante Sant’Eligio in adorazione e una Madonnina lignea risalente al XV secolo, oggi custodita nel Museo di Capodimonte. Nella chiesa si trova anche il sepolcro dello scrittore Pietro Summonte, morto nel 1526.
All’esterno dell’edificio è possibile osservare come questo complesso sia collegato a un’altra struttura mediante un arco a due piani in pietra e mattoni. Al secondo piano vi è una finestra, al primo un grande orologio che secondo alcuni ricorderebbe l’orologio pubblico di Auxerre o la torre ad orologio di Rouen. L’orologio napoletano è decorato con due teste di marmo: una maschile a una femminile. Secondo una leggenda, narrata da Giovanni Antonio Summonte nella sua Historia della città e del Regno di Napoli, le opere rappresenterebbero Antonello Caracciolo, titolare di un feudo calabrese, e una fanciulla vassalla del nobiluomo. Il blasonato si innamorò della giovane ma non essendo corrisposto decise di rapirle il padre. La regina Isabella d’Aragona, venendo a sapere dell’accaduto, ordinò di far catturare il Caracciolo, di fargli sposare pubblicamente la donna che amava, e di farlo giustiziare subito dopo nel Campo Moricino. Il sodalizio ufficiale sarebbe servito così a lasciare in eredità alla giovane una grossa somma di denaro come risarcimento del danno subito.
Fonti: Franco Cardini, “L’Italia medievale”, Milano, Touring Club Italiano, 2004; “Napoli e il golfo”, Milano, Touring Club Italiano, 2015