Cultura

Suor Giulia e la Carità Carnale: la donna che insegnò ai napoletani a pregare col sesso

Suore e sesso sono due argomenti che vengono associati prevalentemente a storielle e barzellette di cattivo gusto dal contenuto volgare e blasfemo. La vita monastica delle “sorelle” e tutti i divieti e le privazioni che ne conseguono hanno sempre scatenato la fantasia e l’entusiasmo dei malpensanti e dei burloni. Il caso di Suor Giulia, donna che sconvolse la Napoli del ‘600 con la “Carità Carnale” potrebbe rientrare benissimo fra queste barzellette, ma la realtà potrebbe dimostrarsi molto più profonda e spirituale di quanto si pensi.

L’enciclopedia Treccani scrive che Giulia Di Marco nacque a Sepino, in Molise, nel 1574 o nel 1575 in una famiglia dall’estrazione sociale molto modesta: il padre era un bracciante, mentre la madre era, a sua volta figlia di un bracciante e di una schiava turca. Il padre morì quando Giulia aveva dodici anni, ma per esigenze economiche fu sistemata come domestica presso un mercante di Campobasso.

Quando anche questi morì, la ragazza raggiunse la sorella a Napoli. Le cronache raccontano che qui venne sedotta da un servitore che non esitò ad abbandonarla quando rimase incinta. Subito dopo aver partorito, Giulia abbandonò il figlio alla ruota dell’ospedale della Ss. Annunziata e decise di votare la sua vita a Dio. Vestì l’abito di terziaria francescana con una tale vocazione e forza spirituale da attrarre subito su di sé le attenzioni e le speranze di fedeli ed uomini di culto.

Fra questi padre Aniello Arciero, che divenne nel 1605 direttore di coscienza della donna. La “Istoria di Giulia Di Marco”, redatta da un ignoto teatino alla chiusura della vicenda, racconta che fra i due nacque sin da subito un rapporto che andava ben oltre i limiti imposti dall’ordine monastico e sacerdotale. Alla coppia si aggiunse presto Giuseppe De Vicariis, un avvocato napoletano squattrinato, ma affascinante e ricco di idee. Fu proprio De Vicariis ad avere l’idea di trasformare il corpo della compagna in un vero e proprio luogo di culto.

Suor Giulia godeva della fama di santa in tutta Napoli grazie a visioni ed eventi mistici, oltre che alla sua manifesta fede incrollabile: il popolo le affidò persino l’appellativo di “Madre”. Secondo la visione religiosa del trio, però, non c’era modo migliore di onorare Dio e raggiungere la beatitudine che attraverso il sesso: ideologia che De Vicariis stesso raccoglierà in un libro. Tutta la città iniziò a credere che attraverso il suo corpo, in particolare attraverso le parti intime, la “santa” riuscisse ad avvicinare a Dio. I rapporti sessuali fra la donna ed i suoi numerosi fedeli venivano considerati vere e proprie preghiere e vennero chiamati “Carità Carnale”.

Una setta che, nel 1611, prese come sede Palazzo Suarez, offerto da un magistrato particolarmente devoto. Un po’ luogo di culto, un po’ bordello, il palazzo divenne luogo di pellegrinaggio di tutti i napoletani benestanti, ma i canoni per ottenere la tanto sospirata “Carità Carnale” erano ben precisi: solo gli uomini non sposati e di età inferiore ai 25 anni potevano potevano “pregare” con la santa e le sue consorelle, tutti gli altri dovevano accontentarsi di una cappella per la preghiera (quella vera). Suor Giulia non era affatto bella, bassa di statura e di carnagione olivastra, ma principi, magistrati, nobili e possidenti della città, spagnoli, italiani ed alti prelati accorsero a Napoli per inginocchiarsi avanti a lei e ricevere la sua particolare benedizione. Ad oggi, i motivi di un simile desiderio sono inspiegabili.

La Chiesa, che in quel tempo per mezzo della Santa Inquisizione bruciava eretici e “streghe” in ogni angolo d’Europa, non poteva consentire ad una suora di mischiare sesso e Dio con tanta naturalezza e libertà. Si aggiunga che altra grande nemica della donna era la potente congregazione dei teatini, devoti di Suor Orsola Benincasa timorosi che la “Carità Carnale” potesse offuscare la fede della loro santa. Dal 1607 suor Giulia venne accusata di eresia, stregoneria, di aver avuto rapporti col demonio e persino di avere un anello magico, le sue consorelle vennero torchiate e lei stessa venne più volte allontanata da Napoli.

Eppure, grazie all’influenza dei Gesuiti dello stesso Viceré, anche lui seguace della “Madre”, riuscì sempre a tornare nel suo tempio. La stessa rivale, suor Orsola, incontrò suor Giulia e da allora iniziò a professare quanto essa fosse corrotta e diabolica. Nel 1615, però, l’allora Vescovo di Caserta ed Inquisitore Deodato Gentile decise che per mettere sotto scatto la peccaminosa santa fosse necessario portarla a Roma, dove le influenze napoletane non potevano aiutarla.

Fu così: suor Giulia, padre Aniello e de Vicariis furono condannati per eresia ed orge dal Santo Uffizio ed abiurarono la “Carità Carnale” dopo innumerevoli torture. Passarono il resto della loro vita nelle prigioni di Castel Sant’Angelo lasciando ai napoletani soltanto il ricordo di come, per una decina d’anni, convissero in un’unica donna l’amore sacro e l’amor profano. La vicenda di suor Giulia, lo scandalo e la sua fede hanno ispirato storici, filosofi e teologi che hanno raccolto testimonianze e discusso sul particolare culto: fra questi si ricorda “La carità carnale. Cronaca dell’eresia di suor Giulia di Marco inquisita nella Napoli del ‘600” di Fabio Romano, che riporta numerose fonti del tempo.

Per qualcuno la storia di suor Giulia è semplicemente quella di una donna lussuriosa che aveva trovato un pretesto per avere innumerevoli amanti, per altri il piano di tre sfaccendati per spacciare prostituzione come devozione, ma forse la carità carnale ipotizzata non era così lontana dalla fede. In moltissime religioni il sesso è usato come tramite per la divinità, in particolare il momento di estremo piacere è visto quasi sempre come un’estasi sacra: dagli induisti agli antichi greci, dai Maya ai vichinghi ogni antico credo comprendeva ed incentivava il sesso.

Solo la religione ebraica e quelle che da essa sono derivate hanno iniziato a trasformare il piacere nel mero dovere di procreare e a bollare come peccato qualunque pulsione. Forse suor Giulia non era poi così lontana dalla fede lodando Dio per il piacere di vivere, gioire e conoscere intimamente l’altro. Quel che è certo è che se nel ‘600 ci fosse stata più carità carnale e meno torture, se ci fossero state più suor Giulia che inquisitori, tante vite innocenti sarebbero state salve e felici.