L’arte di costruire degli antichi vesuviani: le tecniche e il lavoro del cantiere
Ott 01, 2017 - Immapaola Memoli
Edifici imponenti, strutture che resistono al tempo, le costruzioni di epoca romana destano sempre meraviglia e stupore per la loro grandezza e resistenza, per questo ci si chiede spesso come venivano realizzati.
Anche nel mondo romano, prima di mettere su una costruzione, vi era tutto un processo di lavorazione della materia prima che gli archeologi hanno saputo ricostruire grazie ai tanti resti che oggi troviamo in diverse città italiane, oltre che alle diverse fonti storiche e letterarie.
La qualità della materia prima era fondamentale perché implicava e influiva sull’uso di una tecnica costruttiva rispetto ad un’altra. Nel cantiere di lavoro le competenze e i livelli tecnologici raggiunti da quel gruppo o da quella comunità, poi si trasmettono di volta in volta ad altre comunità.
Prima del lavoro in cantiere c’era la fase molto importante di approvvigionamento della materia, che era caratterizzato dall’utilizzo di litotipi locali. La scelta di un certo tipo di materiale identificava anche lo status sociale dell’edificio, il suo carattere ideologico: il materiale usato, per esempio, per costruire un tempio non era lo stesso usato per costruire una casa.
Esistevano delle cave di coltivazione da cui si attingeva per reperire il materiale. Lo studio delle cave ci dà informazioni sulle caratteristiche dell’architettura di una comunità. Prima, dunque, del lavoro di cantiere di costruzione, vi è quello del cantiere di cava che prevede le seguenti fasi:
– estrazione
– lavorazione preliminare
– trasporto
Una volta trasportato il materiale, nel cantiere vero e proprio si definisce un’organizzazione che non è così distante da quella nostra attuale. Il cantiere prevedeva un architetto progettista, che era una figura piuttosto ambigua: inizialmente era un capomastro, un capocantiere, con esperienza di carpentiere, un po’ diversa dalla figura odierna di architetto. Con il tempo però diventa una figura sempre più teorica e meno pratica, con una formazione matematica e filosofica. Segue la nascita dell’edificio, diventando una figura di riferimento, un supervisore. L’architetto, inoltre, disegnava il progetto avvalendosi di modelli.
C’erano poi tagliatori di pietra, scultori, carpentieri, modellatori di cera, pittori, fabbri. Non erano degli schiavi ma dei veri e propri lavoratori che erano pagati a seconda della mansione che svolgevano.
Una volta definiti i ruoli si passa all’azione con le diverse fasi costruttive. Si realizza la fossa dove verrà alloggiata la fondazione. La fossa può essere sia più larga della fondazione sia combaciare con essa. Solitamente la fondazione era riempita con materiale cementizio.
Il passaggio successivo è la messa in opera dei blocchi con particolari tecniche di sollevamento che dal mondo greco al mondo romano rimangono le stesse con alcuni miglioramenti. I blocchi tra loro venivano fissati con un legante, di solito si usava la malta.
A seconda di come venivano posizionati i blocchi di pietra o di marmo otteniamo le diverse tecniche costruttive che oggi possiamo ammirare nei vari siti archeologici vesuviani e campani.
Innanzitutto si possono distinguere tre grandi macroaree: la struttura a grandi blocchi, le strutture miste e le strutture con pietre di piccole dimensioni.
Delle strutture a grandi blocchi fanno parte l’opera poligonale (poligonalis) o opus siliceum e l’opera quadrata.
Opera poligonale o opus siliceum: la tecnica consisteva nel disporre grandi blocchi, tagliati in maniera rozza, senza forma, disposti l’uno sull’altro senza l’uso del legante. Essendo molto imponente e solida veniva utilizzata soprattutto per cinte murarie difensive. Attestata in particolare nel Lazio o comunque nell’Italia centrale.
Opera quadrata: si costruiva con blocchi tagliati in forma di parallelepipedi e disposti in filari orizzontali. Le più antiche testimonianze di questa tecnica risalgono al VI secolo a.C. e sono attestate perlopiù a Roma. L’opera quadrata si adattava soprattutto ad edifici regolari, generando non solo una stabilità dei singoli elementi ma ottenendo anche un ottimo risultato estetico. L’architettura pompeiana di IV e III secolo a.C. offre esempi di rozzi muri di calcare; con l’utilizzo successivo del tufo vulcanico inizia la creazione di edifici bellissimi in cui i tagliatori di pietre mostra la loro grande maestria. Ne troviamo un esempio nella facciata del Tempio di Apollo. Anche le colonne venivano spesso realizzate con la tecnica dell’opera quadrata, come ad esempio le colonne di Villa dei Misteri a Pompei.
Delle strutture miste fanno parte: la struttura a scacchiera, l’opus africanum, l’opus craticium.
Struttura a scacchiera: consisteva nell’alternare grandi blocchi squadrati, come riempimento venivano utilizzati pietre di minori dimensioni. Abbiamo attestazioni in Campania solo a Velia del III secolo a.C.
Opus africanum, detto anche opera a telaio: nasce in Africa, da qui il nome africanum, ed è costituito dall’alternarsi di catene verticali di blocchi con catene orizzontali, le ultime più larghe delle prime. Il periodo di maggiore diffusa di questa tecnica a Pompei è tra la prima metà del III e il secondo quarto del II secolo a.C.
Opus craticium o opera a graticcio: è la tecnica di costruzione mista più diffusa nell’architettura romana. Nonostante ciò è la tecnica che ha lasciato meno evidenze archeologiche, gli unici esempi li troviamo a Pompei ed Ercolano, ancora una volta fonti preziose di informazioni sugli antichi Romani. L’opus craticium consiste nell’impiego di un’intelaiatura di legno, i cui spazi di risulta vengono riempiti con un miscuglio di pietrame, malta e argilla. Esempi li troviamo nel Collegio degli Augustali ad Ercolano.
Opus incertum: è una tecnica che prevede la messa in opera di pietre piuttosto piccole e informi, non è altro che il rivestimento dell’opus caementicium, cioè della muratura in pietrisco legato con malta. Ricorre già a partire dal III secolo a.C. In quasi tutti gli edifici, sacri e privati di Pompei possiamo trovarne attestazioni.
Opus reticulatum: vengono disposti blocchetti quadrati di tufo grigio o giallo secondo un asse inclinato di 45°. Tutto ciò permette di velocizzare il lavoro e di produrre virtuosismi tecnici. Ad Ercolano abbiamo esempi nella Casa del Salone Nero e a Pompei nella Casa dei Dioscuri.
Opus vittatum: è forse la tecnica più logica; consiste nel disporre semplicemente blocchetti quadrangolari della stessa altezza su filari orizzontali. Molto diffusa in età augustea, infatti è attestata nei più importanti edifici pubblici costruiti proprio durante il I secolo a.C.
Opus mixtum o opera vittata mista: consiste nel disporre in maniera alternata mattoni e blocchetti di forma parallelepipeda di travertino o di tufo grigio. La porta di Ercolano a Pompei, per esempio, presenta un paramento in opera incerta e catene angolari in opera mista. Molte strutture furano restaurate con questa tecnica dopo il terremoto del 62 d.C.
Opus testaceum o opera testacea: consiste nell’uso del laterizio, ovvero il mattone cotto (testa). Gli elementi più antichi degli edifici di Pompei sono realizzati con questa tecnica. Per esempio nella Casa del Fauno, nella Basilica o nella Casa dei Mosaici.
Tecnica a pisè o opus formaceum: è un sistema di messa in opera dell’argilla cruda che prevede la costruzione di casseforme lignee entro cui il materiale edilizio viene costipato mediante l’uso di una pesante mazza di legno (il mazzapicchio).
A Pompei, l’impiego della tecnica a pisè è attestato in alcune abitazioni di III secolo a.C., (Casa delle Vestali, Casa del Centauro.
Fonti:
– “Le tecniche edilizie” in “Pompei, Oplontis, Ercolano, Stabiae” di F. Pesando e M.P. Guidobaldi, 2006
– “L’arte di costruire presso i Romani: materiali e tecniche” di J.P. Adam, 1984