Senz’altro il vaso più famoso dopo quello di Pandora, almeno all’ombra del Vesuvio. Anche perché dal “buccaccio” napoletano non escono, come invece da quello della mitologia greca, i mali del mondo. Tutt’altro: olive, melanzane, peperoni, alici, pomodori e il loro bagaglio di odori e di sapori rendono l’apertura dello scrigno partenopeo un inebriante viaggio pentasensoriale. Per i veri e propri cultori quasi un pellegrinaggio profano verso la “tavola promessa”.
Se oggi, però, solitamente il Santo Graal dei buongustai napoletani è in vetro o più raramente anche in plastica, in realtà il primo esemplare era in terracotta smaltata, a forma cilindrica, e con un coperchio costituito da un piatto o carta oleata, al di sopra dei quali veniva posizionata una pietra per chiudere il prezioso contenuto quasi ermeticamente.
Contenuto rigorosamente e interamente immerso nell’olio, per evitare – oggi come all’ora – che i viveri andassero a male e si ammuffissero. Olio che poi, in ultimo, veniva utilizzato sul pane o per “innaffiare” gustose insalate, insaporite dal retrogusto rilasciato dall’oro liquido, pregno dei sapori delle vivande che aveva avvolto per settimane e mesi.
Quello che, tuttavia, molti non sanno, però, è perché tale contenitore venisse e venga ancora chiamato proprio “buccaccio”: l’appellativo, in realtà, deriva dal latino bucca, ovvero bocca. In effetti il magico vaso sembra avere una grande bocca aperta, proprio come coloro che pregustano la sua apertura.