In una villa di Lago Patria si è alla ricerca di due cadaveri: quelli dei fratelli Sciarra, discendenti di una ricca famiglia siciliana. Il primo è stato subito trovato ed è in attesa di essere seppellito dalle parti di Giugliano, mentre il secondo, il cadavere di Nino, manca all’appello. Trovarlo non sarà facile, perché la villa è buia, maleodorante e piena zeppa di mobili e cianfrusaglie ammassate in ogni dove.
Eppure, la mole di oggetti è nulla in confronto allo straordinario numero di libri presenti nella villa. Sono ovunque: stipati su sedie e armadi o accatastati l’un l’altro per terra, tenuti insieme da uno spago. Sono i libri che Nino leggeva ad alta voce al fratello, cieco dalla nascita. “Il cadavere di Nino Sciarra non è ancora stato trovato” è l’ultimo romanzo di Davide Morganti, pubblicato per i tipi della Wojtek Edizioni, giovane e promettente casa editrice con base a Pomigliano d’Arco, e parla proprio di libri. «Nella penombra poso la mano su un libro, lo prendo, è malridotto, lo accarezzo, sento sotto le dita una specie di calore, forse riconoscenza», così parla l’anonimo protagonista del romanzo, al quale è stato affidato la difficile ricerca del cadavere di Nino.
I libri di cui la villa è piena non sono i grandi classici della letteratura mondiale, né i cosiddetti “bestseller” dai titoli altisonanti degli anni recenti. Al contrario: sono le opere degli scrittori dimenticati del ‘900 italiano. Nedda Falzolgher, Sandro De Feo, Salvatore Satta, Angelo Fiore, Giuseppe Occhiato, Carlo Coccioli, Nino Palumbo, Giose Rimanelli: nomi che non dicono nulla ai più, e che, proprio per questo, il romanzo di Morganti sembra voler concedere loro quella solidità e resistenza di cui fino ad oggi non hanno potuto beneficiare. “Il cadavere di Nino Sciarra” restituisce dignità agli autori obliati – senza pentimento alcuno – della nostra letteratura. E’ lecito domandare come possa essersi verificata tale dimenticanza.
Una possibile risposta, del tutto non esaustiva, potrebbe essere ricercata nella seguente affermazione del romanzo: «In Italia gli sconfitti non contano, in Italia si onora il vincitore, è una legge antica; il resto non merita memoria, ma soltanto sepoltura», e ciò varrebbe nella vita tanto quanto nella letteratura, che ogni più attento lettore non potrebbe ritenere altro che l’inveramento di ciò che l’esistenza ha di più essenziale.
Ciò nonostante, tale oblio, qualora si riuscisse a scrutarlo più in profondità, corrisponde a quell’intimo destino che accomuna tutte le espressioni delle opere inattuali, la cui vocazione consiste, inevitabilmente, nella salubre distanza da ogni volgare clamore. Perché sì: «Ci sono parole che preferiscono vivere povere, senza luci, urla, interviste, sono come olivi nella sabbia, non seccano mai e sanno stare in solitudine, facendo a meno degli occhi e della voce degli uomini». Il romanzo di Morganti, dunque, è sì un atto di riconoscenza nei riguardi dell’esperienza letteraria dimenticata, ma è un riconoscimento che proprio in funzione del suo oblio è in grado di esprimere una profondità e una freschezza ben maggiore di quella che gli incensati autori dalla nostra epoca potrebbero mai concedere.
“Il cadavere di Nino Sciarra” si compone ricercando in tali opere ciò che esse custodiscono di più prezioso: quell’epifania letteraria in grado di esortare, nel linguaggio, l’irrimediabile silenzio delle cose ultime. Morganti, infatti, è alla ricerca delle riflessioni sulla vita, sulla morte, sul nulla e su Dio, mediante le quali la tensione dell’enigma dell’essere si fa via via sempre più viva e densa, fino a riversarsi in quell’espressione limite dell’esperienza narrativa che, per via della propria trazione, s’innalza fino a sfiorare l’estremità del silenzio. L’autore è interessato, anzitutto, alle pagine in cui la parola collassa – superandosi – in un dirupo di fremente e appassionato misticismo. Superamento che Morganti indica con l’espressione ‘intermittenza’: ovvero l’imprevista rivelazione dell’essenzialità fulminea, necessitata a dileguarsi nell’eterno inganno del mondo. «Le intermittenze – afferma il protagonista del romanzo – sono un’intercapedine tra noi e quello che non vediamo, un mistero in controluce […] non le vede quasi nessuno e chi le indica è preso per pazzo».
L’indagine di tali riflessioni matura efficacemente, in una narrazione dallo straniamento tipicamente kafkiano: poiché nel tentativo di ripercorrere la traccia delle intermittenze degli scrittori mancati, l’autore ne restituisce, a pieno diritto, la dignità della loro complessità. Nel tentativo di dar voce alle parole obliate, Morganti traccia una polifonia di esperienze letterarie talmente preziosa, che non può far altro che aggravare la loro dimenticanza. In tale orizzonte, è evidente la critica alle cosiddette ‘intellighenzie‘ succedutesi nel corso degli anni nel bel paese, poiché molti degli autori citati nel romanzo sono stati obliati – soprattutto– per ragioni politiche.
Prima o poi bisognerà pur ammettere che le suddette ‘intellighenzie‘ sono riuscite a modellare, a suon di censure, una pedagogia letteraria a propria immagine e somiglianza, imponendo al panorama culturale italiano tutti i suoi paradigmi. Nondimeno, oltre a ciò bisognerà pur ammettere – cosa ben più grave – che tale fenomeno si è realizzato senza impedimento alcuno, perché il fruitore di lettere italiano, limitato ai paradigmi di cui sopra, ha ritenuto di dover sempre legittimamente demonizzare tutto ciò che non ha osato fermarsi alla superficie delle cose.
Abbiamo parlato de “Il cadavere di Nino Sciarra” con il suo autore, Davide Morganti.
Come nasce l’idea di un romanzo sugli scrittori italiani dimenticati del ‘900?
«L’idea di partenza era quella di scrivere un manuale di letteratura alternativa nel quale parlare di alcuni scrittori italiani del ‘900 che, per una ragione o per un’altra, sono stati dimenticati. Per anni ho chiesto ai rappresentanti delle scuole se il mio progetto potesse interessare, senza ottenere grossi risultati. Un giorno l’amico Paolo Ciro Marino della Wojtek mi chiese se avessi un libro in preparazione. Gli parlai di questo progetto, ma mi rispose che avrebbe preferito qualcosa di diverso da un manuale scolastico. Comincio a scrivere, allora, la storia di un uomo che si mette alla ricerca dei libri di alcuni autori dimenticati all’interno di una grande villa di Lago Patria. E’ stato poi il giovane critico letterario Antonio Russo De Vivo a suggerirmi di inserire nella storia la ricerca di un cadavere, che è diventato il leitmotiv del romanzo».
Come ha scelto gli autori che ha inserito ne “Il cadavere di Nino Sciarra”?
«Alcuni scrittori li ho scelti casualmente, altri perché mi piacciono molto, come Angelo Fiore, Giuseppe Occhiato, Carlo Coccioli, la poetessa Nedda Falzolgher e Salvatore Satta, autore del bellissimo romanzo “Il giorno del giudizio”. La mia personale preferenza va soprattutto ai siciliani, che trovo grandiosi. Quanto agli altri, alcuni sono stati davvero incontri casuali, che ho scoperto grazie ai miei vecchi libri Vallecchi. In genere, ho scelto gli scrittori che hanno a che fare con Dio e la religiosità, senza però precludere l’accesso agli altri. Tra i vari autori che ho inserito nel libro mi piacerebbe fosse ricordato Nino Palumbo, perchè il suo “Il giornale” è un romanzo bellissimo. E’ considerato un minore del neorealismo degli anni ’50, interpretazione che non condivido affatto. Trovo davvero infame che sia stato così schiacciato e dimenticato. Nel mio libro, inoltre, vi sono, molti scrittori di cosiddetta destra, ad esempio “Autobiografia di un picchiatore fascista” di Giulio Salierno, che ho inserito non tanto perché fosse ben scritto, quanto perché m’interessava la sua onestà nel parlare del suo omicidio da quattro soldi. Poi c’è Giose Rimanelli con il meraviglioso “Tiro al piccione” che parla del cosiddetto ‘lato sbagliato della barricata’ politica italiana. Purtroppo, quello che io chiamo il ‘clan romano’ degli anni ’60, ovvero Massimo Bontempelli, Alberto Moravia e il resto dell’intellighenzia italiana dell’epoca, costrinse Giose Rimanelli – nel nome della democrazia – a scappare in Nord America».
Quanto dice in merito al ‘clan romano’ è molto interessante. Nelle sue opere si percepisce chiaramente l’influenza di determinati scrittori, autori che – assai semplicisticamente – potremmo definire di ‘destra’. Potrebbe spiegarci questa influenza?
«Credo di aver imparato a scrivere soprattutto grazie agli autori di destra, perché hanno un senso del ritmo più alto e mi hanno trasmesso l’amore per le parole e come riuscire, per loro tramite, ad arrivare al mistero. Mi ha sempre affascinato la loro estrema spiritualità, che mi ha insegnato una cosa molto importante: il rispetto e l’attenzione per l’altro. Mi considero una persona estremamente aperta a qualsiasi tipologia di pensiero e l’ho imparato da quelli che, in genere, sono considerati dei reazionari. A dire il vero, definire politicamente uno scrittore vuol dire ridurlo ad un lato solo della vita, cosa che trovo molto stupida. Per me questi autori non sono ‘autori di destra’, quanto scrittori appartenenti alla cultura dell’humanitas, poiché ritengo che la loro urgenza fosse soprattutto quella di raccontare l’esistenza. Urgenza che non si riscontra in tutti gli autori, perché talvolta in molti c’è più che altro il desiderio di voler fare gli educatori, esigenza che ha distrutto la loro scrittura. Penso soprattutto agli scrittori della sinistra italiana degli anni ‘50 che trovo noiosissimi, insopportabili e conformisti».
In tale contesto, quali sono gli autori che l’hanno maggiormente influenzata?
«Quando ero studente ho letto Carl Schmitt, Ernst Jünger e ho amato profondamente “I proscritti” di Ernst von Salomon. L’autore che sicuramente mi ha più influenzato nell’uso delle pause è Albert Caraco con “Breviario del caos” e “Post mortem”. Negli anni ’80 ho apprezzato Emil Cioran, che giocava molto a proposito della propria apocalisse, pur essendo, in realtà, un uomo molto spiritoso. Poi c’è Céline, del quale amo soprattutto “Morte a credito”: la sua potenza visionaria è tale da spaccare le parole. Quando ho iniziato a leggere questi autori, dico la verità, non sapevo nemmeno fossero di destra. Li ho letti perché mi interessava quello che dicevano e come lo dicevano, solo crescendo ho capito che stavano in quest’aria. Sinceramente, mi fa molto sorridere la gente che pensa che lo scrittore di destra sia sempre il fascista cattivo, perché gli autori che ho frequentato non erano nemmeno fascisti, quanto individualità dotati di un altissimo senso della vita, persone dall’aristocrazia interiore molto forte, che per me significa anzitutto l’amore per la vita e uno sguardo oltre l’esistenza. Alla luce di ciò, non posso che affermare che i più, quando parlano di destra associandola a Casapound, non sanno minimamente di cosa stanno parlando. Il problema è la semplicità con cui la destra viene frettolosamente identificata con la morte e la guerra. Non capisco questo collegamento, per il semplice motivo per cui non ho mai pensato che Pavese fosse un criminale semplicemente perché comunista. Anzi, penso fosse un grande scrittore, un grande poeta e un grande uomo, ma non un cattivo. Lo stesso vale per Camus».
Purtroppo, molti degli autori da lei indicati sono ancora oggi demonizzati. Perché, secondo lei?
«Sono dell’idea che questa contrapposizione destra-sinistra sia ormai vecchia e andrebbe superata. Molto spesso ho invitato amici e colleghi a leggere questi autori, ma mi hanno quasi sempre risposto allo stesso modo: “non li leggerò perché sono fascisti”. Se qualcuno avesse dato del fascista a Henry de Montherlant non credo che l’avrebbe presa bene. Stiamo parlando di un autore che pagò per il suo “Solstizio di giugno” perché era considerato a favore del nazismo. In realtà le cose non sono così semplici: bisogna sempre contestualizzare, perché a posteriori è facile pensare che siamo tutte anime belle. Spesso ho notato che chi legge gli autori di cosiddetta destra legge anche quelli di sinistra, mentre gli autori di sinistra non leggono quasi mai quelli di destra, cosa che non capisco. Ad esempio, non mi capacito del perché sono tutti bravi a condannare Céline considerandolo un cattivo collaborazionista antisemita, mentre nessuno si ricorda di lui come di un medico che curava gratuitamente i poveri e gli ebrei. Non capisco perché Cèline sia celebrato come scrittore, ma costantemente offeso come uomo, mentre Simenon, anche lui collaborazionista, non abbia ricevuto le stesse offese. E’ morto nelle ricchezze più assolute, mentre Cèline è morto come un povero cristo, mantenuto dalla scuola di ballo della moglie».
Nel libro compare spesso l’espressione “intermittenze”. Cosa intende esattamente con questa parola?
«Le intermittenze sono per me gli scrittori, i pensatori, i predicatori e gli artisti che ti fanno intravedere qualcosa che sta al di là dell’esistenza stessa. Soltanto che questo avviene assai raramente. Penso a personalità come Kafka, Gesù, Maometto, Escher, perché soltanto a pochissimi è stata concessa la capacità di poter vedere e di poter annunciare. Questo lo pensavo sin da giovane, quando leggevo Swedenborg e amavo molto i testi mistici. Ho sempre pensato fosse troppo riduttivo considerare i mistici degli invasati o dei malati. Non è un caso che leggessi gli scritti di mistica da ragazzo, ovvero quando ero ancor più razionale di adesso. Questo mi fa pensare a Wittgenstein, l’apoteosi della logica che si arrende di fronte al mistico. Alla luce di ciò, con l’espressione intermittenze intendo quel meccanismo in cui la verità si rivela, ma confondendosi nella falsità del vivere».
Nel libro è costante la denuncia alla mancanza di spiritualità dell’epoca odierna, come quando scrive: «Il sovrannaturale pare sia ormai solo nei giornaletti scandalistici, negli oroscopi, nelle parole dei personaggi televisivi che evocano i loro morti: una mancanza totale di spiritualità che ha lasciato il posto alle palestre, allo yoga, a non so quanti Buddha e a non so quante anime incarnate». Potrebbe spiegare questa critica alla modernità? Quali sono le sue fonti?
«Sin da ragazzo, dal punto di vista spirituale, mi hanno influenzato registi come Buñuel e Bergman. “Ordet” di Dreyer ha segnato profondamente la mia vita, cambiando il mio modo di vedere il mondo. Quanto alla letteratura, scrittori come Dostoevskij, Tolstoj e Bulgakov sono i primi che mi vengono in mente, mentre in ambito poetico penso soprattutto a “Il dolore” di Attila Jozsef. Inoltre, ho letto molti libri di teologia, laureandomi sul teologo evangelico Jürgen Moltman e amo molto l’”Epistola ai romani” Karl Barth. Da ragazzo leggevo Santa Teresa d’Avila, Bonaventura ed Eckhart. Pertanto, sono interessato sia all’aspetto mistico, sia all’aspetto speculativo-intellettuale della teologia. Quello che vedo oggi, invece, è che la spiritualità è diventata veramente come un corso in palestra. Ritengo sia legata ad una sorta di solitudine e di disperazione: le persone di oggi hanno fretta di fare tutto, anche di credere e questo porta a gravi errori. Oggi c’è molta confusione e mi pare che manchi del tutto la voglia di approfondire. Alle volte penso davvero che il pixel abbia sostituito l’anima, mentre io ci credo ancora».
Il romanzo critica quello che più volte definisce lo «stiticismo letterario del 2000». In particolar modo, sembra rivolgersi alla letteratura italiana, quando scrive: «Gli italiani credono che si scriva per distruggere gli altri, buffoni ammalati di bile sfiatata […] paranza inerme, vile, che non sa scrivere e quando lo fa, insozza le parole». Cosa pensa della letteratura italiana contemporanea?
«La letteratura italiana contemporanea è pessima, banale e tende molto a voler accontentare il pubblico. Questo voler piacere a tutti i costi rischia di distruggere la cultura letteraria. Sia ben chiaro, però, che la mia critica si riferisce soprattutto alla letteratura da premio Strega, ovvero quella che arriva al grande pubblico, perché scendendo un po’ più in profondità troviamo scrittori eccellenti. Tuttavia, se parliamo della letteratura secondo le direzioni degli editori, ovvero quella fatta da frasi brevi, storielle semplici e possibilmente riguardanti la famiglia, allora penso che sia pietosa. Ritengo anche che agli inizi del 2000 imitare Raymond Carver sia stato devastante. Si pensava che scrivere una storiella due camere e cucina ti facesse diventare scrittore e questo non ha fatto altro che creare ulteriori danni. L’altro grande problema è che gli scrittori contemporanei vogliono stare tutti davanti ai loro libri: sono più personaggi che autori. Personalmente, non m’interessano né il personaggio né lo scrittore, sin da ragazzo mi sono sempre interessato esclusivamente ai libri, perché ho sempre creduto che la verità fosse al loro interno. Che poi un autore scali le montagne o galleggi nell’aria, non me ne importa niente. Ormai esiste solo la caccia al personaggio, ancor meglio se l’autore è anche un bell’uomo o una bella donna, così le copertine risultano ancor più vendibili. Purtroppo ci muoviamo tra Barbara d’Urso e Maria de Filippi anche in ambito letterario. Per me la letteratura italiana è già morta. Qualcuno dirà che sono presuntuoso, ma parlo da lettore e non da scrittore: anche se non avessi scritto niente direi le stesse identiche cose».
Alla luce di ciò, teme che anche i suoi romanzi possano comparire, un giorno, nella fantomatica antologia di autori dimenticati del 2000 di un Davide Morganti del futuro?
«Assolutamente sì. Ho scritto questo libro sugli autori dimenticati del ‘900 mettendomi in mezzo a loro, perché mi sento già uno di loro. Non sono uno scrittore della cultura ufficiale, mi sento un già morto tra i morti e la cosa non mi spaventa. Mi rincuora, però, sapere che negli ultimi anni, tra i lettori che mi seguono, ci sono moltissimi giovani. Non me l’aspettavo, perché non seguo il consenso a tutti i costi. Penso che non posso dedicare la mia vita alla ricerca del consenso semplicemente scrivendo qualcosa che possa piacere, perché ho altre prospettive. Non vivo di scrittura, vivo facendo l’insegnante, non ho successo: il fallimento mi rende libero, quindi non devo ammiccare a niente. Il libro, per me, resta principio di vita e non mera esibizione. Talvolta ho come l’impressione che il libro venga usato come una bella collana luccicante, mentre invece è sangue e carne».
Nel romanzo c’è una frase molto significativa: «L’Italia è una provincia che non sai manco se la trovi sulla carta geografica tanto non significa niente, attaccata all’Europa con ottusa munificenza». Cosa pensa delle prospettive socio-politiche dell’Italia attuale?
«Ovunque dilaga un infiacchimento che sta portando l’Italia ad essere uno dei paesi più miserabili d’Europa. Facendo l’insegnante posso dire che la scuola italiana è alla deriva. Quando qualcuno dice che gli allievi sono diventati clienti posso confermare che è davvero così. Ormai si pensa solo a promuovere, non a formare né a dare cultura. Quando sento parlare i parlamentari europei di noi italiani mi sembra come se fossimo sempre gli scemi del villaggio. E’ una sensazione bruttissima quella di sentirsi costantemente un’occasione sprecata. Non si vive di passato, ma si vive anche di passato: noi siamo l’Italia, questo non dovremmo mai dimenticarlo. Invece mi pare che l’Italia si sia sempre più persa e la colpa è soprattutto degli editori, perché se pretendono di pubblicare libri fatti di soli periodi brevi e con delle belle paratassi utilizzate per compensare la totale mancanza di idee, è chiaro che dopo un po’ si rischia di avere un paese dove davvero non si hanno più idee. L’Italia è allo sbando, ma tutto sommato, le piace stare così. In un tale orizzonte rivendico per me stesso l’utilizzo della parola intellettuale, anche se oggi c’è questo vezzo che sembra che nessuno debba più essere quello che è veramente. Sono un intellettuale, perché amo le idee e voglio crearle».
Nel romanzo parla di Napoli definendola «la città del silenzio». Potrebbe spiegare meglio questa affermazione?
«Napoli è una città rumorosa, non possiamo negare l’evidenza, però il suo rumore non arriva ovunque. Ad esempio, a Bagnoli c’è un silenzio meraviglioso, pur essendo un quartiere molto abitato. Al Petraio c’è un silenzio antico, incastrato tra due rumori folli quali il Vomero e corso Vittorio Emanuele. Lo stesso può dirsi per la salita del Moiariello, dove capita di inoltrarsi in delle stradine con dei terrazzamenti bellissimi: sembra di trovarsi ad Ischia d’inverno, c’è un silenzio totale. Nella zona dell’Eremo dei Camaldoli c’è è lo stesso silenzio. Senza pensare poi a Posillipo, che per me è il silenzio, soprattutto la Gaiola. Credo che sarebbe interessante se si facesse anche del turismo sul silenzio della città».
Per concludere, una domanda sui Campi Flegrei. Poche settimane fa è uscito sul Mattino un suo articolo sull’immobilismo degli intellettuali locali nei riguardi dei Campi Flegrei, terra sempre più abbandonata a se stessa. Da flegreo, come si spiega ciò?
«Penso che gli intellettuali se ne disinteressino perché questa terra ha meno peso politico di Napoli, quindi ha meno appetito. Se una persona fa una levata di scudi contro l’abusivismo edilizio di Monte di Procida o di Monterusciello, non ottiene visibilità. Napoli, invece, offre una visibilità nazionale che i Campi Flegrei non possono offrire. Purtroppo, questa terra viene vista per lo più come un luogo dove farsi una bella mangiata. Ritengo, inoltre, ci sia anche una sorta di disgregazione tra gli intellettuali locali. Ho scritto tanto sui Campi Flegrei, perché è davvero uno dei luoghi più belli del mondo con tutto ciò che ha da offrire in termini di archeologia, paesaggistica, vulcanologia, storia ed enogastronomia. Sono stato invitato ad essere più blando ma non l’ho mai fatto. Tuttavia, non ho nessuna intenzione di partecipare a manifestazioni o ad altre tipologie di eventi».