Un’eruzione può seppellire tutto, tranne le sue stesse dinamiche. A distanza di quasi due millenni, infatti, l’attività eruttiva del Vesuvio verificatasi nel 79 d. C. continua a far parlare di sé e a far emergere tra le rovine e le macerie di Pompei e di Ercolano scoperte sensazionali e, in questo caso specifico, anche piuttosto macabre.
Un gruppo di archeologi dell’Università Federico II di Napoli, infatti, ha di recente dimostrato come numerosi abitanti di Ercolano durante l’eruzione del Vesuvio nell’ottobre del 79 d. C. siano morti per un’esplosione interna al loro corpo e non perché erosi o arsi vivi dai flussi piroclastici fuoriusciti dal leopardiano “sterminator Vesevo“.
A tale conclusione gli esperti studiosi sono giunti analizzando i resti di circa trecento persone riparatesi (inutilmente) presso delle abitazioni in riva al mare. Sulle loro ossa, in particolare quelle del cranio di centotré vittime, sono stati rinvenuti residui minerali di colore nero e rosso. Questi, dopo più attenti esami, si sono dimostrati essere incrostazioni metalliche di ferro e ossido di ferro: secondo i ricercatori sarebbero le tracce del sangue ribollito all’interno dei corpi delle vittime, il quale li avrebbe fatti letteralmente implodere.
In effetti gli scheletri esaminati presentano crepe, fratture e bruciature simili a quelle che si formano durante la cremazione, compatibili con un’estrema ondata di calore. Un’analisi più ravvicinata di alcuni teschi ha rivelato segni di rottura ed esplosione nella parte sottostante alla calotta cranica, che risulta annerita come per la fuoriuscita del materiale ferroso ritrovato. Insomma, un’esplosione meno spettacolare di quella del Vesuvio, ma altrettanto nefasta.