Progettata e realizzata in poco più di 500 giorni. Inaugurata nel maggio del 1940, la Mostra d’Oltremare – all’epoca “Mostra Triennale delle Terre italiane d’Oltremare” – fu elaborata alla luce di tre esigenze fondamentali della politica mussoliniana: la prima di natura urbanistica, la seconda di natura ideologica e la terza di natura economica.
Dal punto di vista urbanistico, la Mostra d’Oltremare aveva l’obiettivo di concretizzare la definitiva estensione del capoluogo partenopeo verso i Campi Flegrei. In tale direzione, già nel 1926 il governo fascista prese una decisione strategica. Con il decreto regio n. 1002, infatti, il Re Vittorio Emanuele, il Duce e il Ministro dell’interno Luigi Federzoni approvarono un piano di risanamento che portò l’aggregazione al comune di Napoli di due cittadine autonome dell’area flegrea: Soccavo e Pianura, favorendone così l’espansione verso ovest.
Dal punto di vista ideologico, invece, la Mostra d’Oltremare avrebbe dovuto rappresentare il manifesto architettonico della politica coloniale del regime fascista. In tale orizzonte, la scelta di Napoli fu una precisa strategia di Mussolini, che considerava il capoluogo partenopeo la “testa di ponte dell’Impero fascista”. Questo perché Napoli, in epoca imperiale, fu il primo porto dell’antica Roma e incarnava perfettamente quel trait d’union ideologico con l’antica spinta coloniale del mondo romano al quale il regime fascista si rifaceva.
Dal punto di vista economico, infine, la Triennale doveva attuare la ripresa commerciale, finanziaria e sociale che Mussolini aveva elaborato per Napoli. Rilancio che doveva concretizzarsi in cinque punti strategici: agricoltura, navigazione, industria, artigianato e turismo. In tale progetto, la Mostra delle Terre d’Oltremare rappresentava la sintesi ideale dei cinque punti suddetti. Il prospetto economico fu annunciato dallo stesso Mussolini nel 1931, nel corso di un appassionato discorso alle camicie nere partenopee in Piazza del Plebiscito.
«Napoli è profondamente trasformata – affermò il Duce – : ne fanno testimonianza gli italiani e gli stranieri. Ma non basta: Napoli deve vivere e sin da questo momento deve segnare le sue direttrici per l’azione del domani. Sono cinque: prima di tutto l’agricoltura, che deve trovare sbocchi per i prodotti delle vostre terre ubertose; poi l’industria, per la quale devono esserci i lavori che le leggi hanno stabilito; la navigazione, che nel vostro porto, completato e ammodernato, deve fare rifiorire i vostri traffici; l’artigianato, che documenterà al mondo la maestria, la genialità dei vostri artigiani; finalmente il turismo, poiché voi potete offrire al mondo panorami incantevoli e città dissepolte che non hanno uguali sulla faccia della terra».
Inserita in tale contesto, la Mostra delle Terre d’Oltremare fu il frutto di un’ardita sperimentazione urbanistica, che arricchì notevolmente la già florida politica architettonica del fascismo – in grado, nel corso di appena 12 anni (dal 1928 al 1940) di edificare ben 12 città. La Triennale fu progettata seguendo i principi dell’architettura del verde: 36 padiglioni espositivi, svariati uffici, due teatri e un’arena, tutto in armonico dialogo con la prospera vegetazione flegrea. Su una superficie complessiva di 642.187 mq, infatti, ben 15 ettari furono destinati alla realizzazione di tre aree verdi: un parco faunistico (l’attuale zoo di Napoli), un parco divertimenti (l’attuale Edenlandia) e le serre botaniche (demolite nel 1980).
La Mostra, inoltre, si presentava come una coraggiosa sintesi delle principali sperimentazioni architettoniche dell’epoca: razionaliste, eclettiche, organiche, coloniali e funzionali. La maggior parte degli edifici vennero realizzati da giovani architetti – soprattutto campani – mediante bandi di progettazione e concorsi.
Al termine dei lavori la Triennale era costituita da tre settori espositivi (storico, geografico e la sezione dedicata alla produzione e al lavoro), una zona archeologica (grazie al ritrovamento di un tratto dell’antica via Antiniana per colles, di un sito termale e di un acquedotto di epoca romana) e due parchi.
All’interno del Settore Geografico spiccava il Padiglione Libia, tra i più vasti della Triennale, realizzato per celebrare le opere del fascismo nella colonia nordafricana. Vero e proprio “parco nel parco” con tanto di perimetro divisorio che ne delimitava l’area dal resto della Mostra, il padiglione si presentava come un autentico microcosmo libico nel cuore della Triennale.
Progettato nel 1939 dall’architetto Florestano Di Fausto – artefice, non a caso, dei principali villaggi coloniali italiani in Libia – il padiglione si presentava come una deliziosa opera di architettura araba nel cuore urbanistico della Triennale. Il nucleo del progetto era costituito da una moschea bianca impreziosita da un alto minareto visibile da ogni angolo della Mostra.
Oltre alla moschea, l’atmosfera libica del padiglione era garantita dalla presenza di un tipico marabutto arabo e da una piccola porzione di deserto sahariano (prelevato dalla colonia) all’interno del quale stanziava un accampamento di beduini – uno dei tanti “villaggi indigeni” del polo fieristico – costituito da apposite tende.
Il padiglione, inoltre, ospitava svariate botteghe di artigiani libici: produttori di caffè, orafi, tessitori oltre a musicisti e danzatrici del ventre. Infine, l’atmosfera esotica dell’area era garantita da ben 1.500 palme di datteri, provenienti dalle coste tripolitane.
In aggiunta a ciò, alcune sale interne del padiglione vennero allestite con le vedute aeree dei principali villaggi italiani in Libia, per celebrare le attività del regime nella colonia nordafricana. Notevole fu anche la presenza di opere pittoriche a decorazione dell’edificio, tra le quali segnaliamo un’opera murale di Antonio Barrera. Infine, ben cinque sale furono dedicate all’archeologia e allestite con reperti provenienti dagli scavi libici.
I villaggi indigeni costituivano uno degli elementi principali della Triennale. Oltre al Padiglione Libia, infatti, altri spazi della Sezione Geografica – come la Mostra dell’Africa Orientale Italiana con l’apposito Settore Etnografico – ospitavano tali villaggi.
Secondo le fonti dell’epoca, furono ben 57 gli indigeni che abitarono i villaggi della Triennale. Rappresentanti di vari gruppi etnici africani (eritrei, somali, libici), furono destinati ai rispettivi padiglioni di appartenenza geografica. Dei 57 indigeni, 7 erano bambini, ai quali se ne aggiunsero altri 2 nati nel periodo di permanenza nella Mostra.
A causa delle leggi razziali – già in vigore dal 1938 – il governo fascista collocò all’interno della Triennale una sezione della Polizia Africana Italiana (PAI), con il compito di controllare e limitare il rischio di contatto tra gli italiani e gli indigeni.
Quando la Mostra fu chiusa nel giugno 1940 a causa dello scoppio della guerra, il gruppo di nativi libici fu immediatamente imbarcato e fece ritorno nel paese di origine. Un indigeno, tuttavia, rimase in Italia, un libico di nome Abdelgader Trudi che per via di una malattia non poté affrontare il viaggio in mare. Fu ospite di una famiglia italiana fino al 1943, anno in cui venne catturato dai tedeschi e deportato a Lipsia. Alla fine della seconda guerra mondiale, Abdelgader tornò a Napoli e lavorò come fattorino nella sede partenopea del Calzaturificio di Varese.
Durante la seconda guerra mondiale, gli americani occuparono la Mostra d’Oltremare e vi allestirono il 21st General Hospital. In questa nuova destinazione del polo fieristico, il Padiglione Libia ospitò il pronto soccorso dell’ospedale.
Nel 1952 la fiera riaprì con la Mostra Triennale del Lavoro Italiano nel Mondo. Nella nuova destinazione espositiva, il Padiglione Libia venne ristrutturato in stile razionalista da Carlo Cocchia e Matteo Corbi e convertito nel Padiglione Italiano nell’America del Nord. Ma la nuova esposizione non ebbe il successo di pubblico sperato e chiuse pochi anni dopo.
Oggi il Padiglione Libia è un luogo interdetto al pubblico che versa in un drammatico stato di abbandono – ben più sconfortante dei vicinissimi Padiglione Rodi e Padiglione Albania. Col passare del tempo, infatti, sono andate perdute le strutture cardine del progetto originario: la moschea, il minareto e il marabutto. A peggiorare drammaticamente la situazione, la decisione presa negli anni ’60 di erigere il Centro Bowling Oltremare negli spazi un tempo occupati dalla moschea. Le poche testimonianze superstiti dell’antica struttura sono preda di piante e degrado.
Esistono delle prospettive per la riqualificazione del Padiglione Libia? Sì sulla carta, no nei fatti. Nel 2005 il Comune di Napoli ha approvato un PUA (Piano Urbanistico Attuativo) che avrebbe dovuto trasformare la Mostra d’Oltremare in un parco fieristico e congressuale di respiro internazionale. Il progetto proponeva anche il restauro filologico del Padiglione Libia, destinato ad ospitare il “Borgo dell’Artigianato” della Mostra d’Oltremare. Nulla è stato fatto in tale direzione.
Successivamente, l’assessore alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli Nino Daniele ha dichiarato la possibilità di un restauro integrale del padiglione ripristinandone la moschea, il minareto ed il marabutto. A tale progetto si affiancò anche la proposta di affidare la restaurata moschea alla comunità islamica della città di Napoli. Neppure in tale direzione è stato fatto alcunché, probabilmente perché dell’originario padiglione non resta più niente, a tal punto che sarebbe più opportuno parlare di un’autentica “riprogettazione” con la relativa “ricostruzione”, piuttosto di un mero “restauro”.
L’ultima notizia sulle sorti del padiglione risale a giugno 2015 quando il Sindaco Luigi de Magistris ha presentato un progetto per la riqualificazione urbana e architettonica della Mostra. Un finanziamento di 65.5 milioni di euro di fondi europei, 16 dei quali da destinare al restauro di ben tre padiglioni: Libia, Rodi e Albania. I lavori di riqualificazione dei padiglioni sarebbero dovuti partire nel novembre del 2016 e concludersi nel 2020. Ma nel 2017 il progetto di recupero è saltato a causa di una «valutazione di impatto ambientale, originariamente non prevista», come si legge nella Delibera della Giunta Regionale n. 338 del 14/06/2017.
Ad Agosto 2019 nulla è cambiato e del Padiglione Libia restano solo le immagini di repertorio. Gli stessi visitatori che affollano gli spazi della Mostra – non sempre in modo civile – nel corso dei vari Comicon, Fiere del Baratto e Festival dell’Oriente, passando nei pressi del padiglione interdetto, non potrebbero in alcun modo immaginare lo splendore arabo che l’edificio era in grado di infondere in un visitatore del 1940.
Insomma, nulla di nuovo. Semplicemente l’ennesimo scandalo – al quale ci stiamo sempre di più drammaticamente abituando – di una città che non è in grado di “aver cura” del proprio patrimonio. Scandalo che, quando potrà finalmente convertitisi in “rimpianto”, sarà sempre e colpevolmente troppo tardi. Ammesso che non lo sia già.
Bibliografia
– Bacichi O., Cepollaro A., Costantini V., Dal Pozzo Gaggiotti A., Zaghi C., La prima mostra triennale delle Terre Italiane d’Oltremare, Emporium Vol. XCII, n. 548, agosto 1940, Bergamo.
– De Napoli M., La formazione dei villaggi rurali in Libia (1933-1940). Aspetti architettonici e urbanistici dei centri urbani fra preesistenze classiche e orientamenti moderni, in Berrino A. e Buccaro A. (a cura di) Delli Aspetti de Paesi. Vecchi e nuovi Media per l’Immagine del Paesaggio, Napoli 2016.
– Deplano V., La madrepatria è una terra straniera: libici, eritrei e somali nell’Italia del dopoguerra, Firenze 2017.
– Stenti S. e Cappiello V. (a cura di), Napoli guida e dintorni. Itinerari di architettura moderna, Napoli 2010.
Sitografia
– Isacchini V., Conseguenza di una mostra fallita: gli ascari nel dopoguerra in Italia, contributo pubblicato sul sito ilcornodafrica.it.