Nell’ottobre del 1837, avveniva quello che possiamo definire come il primo caso di “camorra” nella Napoli borbonica. La carrozza reale attraversava le vie di Napoli, e la giovane ventinovenne Rosa Mercurio implorò il re Ferdinando II di Borbone di concedere la liberazione del fratello Giovan Battista, recluso nel carcere centrale di Castel Capuano, oggi il più antico castello di Napoli dopo Castel dell’Ovo.
Giovan Battista Mercurio era un uomo dall’aspetto piuttosto avvenente. Nato a Palermo, aveva esercitato il mestiere di “stagnaro”, proprio come suo padre. Ma un giorno, Mercurio venne arrestato con l’accusa di omicidio e condannato a morte. La pena di morte venne poi commutata in trenta anni di lavori forzati.
Giovan Battista Mercurio venne poi giudicato idoneo per prestare servizio militare nei reggimenti siciliani, ma come si dice, il lupo perde il pelo, non il vizio. L’uomo fu infatti espulso per cattiva condotta dai reggimenti della sua terra natia, e finì nuovamente agli arresti nelle carceri napoletane, in attesa del ritorno in Sicilia, per scontare la pena a cui era stato precedentemente condannato.
Secondo una memoria trasmessa a uno dei personaggi più influenti della corte napoletana, Giuseppe Caprioli, ecclesiastico e funzionario borbonico nonché capo della segreteria particolare del re, Mercurio “essendo un giovane di spirito e pieno di coraggio, si è esercitato da camorrista nelle prigioni e per delle recenti risse ivi avvenute è stato messo sotto chiave come punizione disciplinare”.
Si anticipa di parecchi anni, dunque, un fenomeno che si sarebbe maggiormente affermato nell’Italia post-unitaria. Ricordiamo, infatti, il patto occulto tra Giuseppe Garibaldi e la Camorra, che gli permise di sbarcare a Napoli ed espugnare la città.
I camorristi erano, dunque, già nella Napoli borbonica, degli individui violenti, pronti a praticare estorsioni verso i soggetti più deboli, senza alcuna pietà. Era solo il 1837 e, nonostante ciò, lo stesso Giovan Battista Mercurio potrebbe quasi essere associato all’immagine di camorrista che noi tutti oggi conosciamo. Il carcere non fermò Mercurio, che continuò ad esercitare il suo comportamento camorristico anche da detenuto.
Il comportamento di Mercurio diventò poi un servizio di cooperazione, non solo con gli altri detenuti camorristi, già affermati, ma anche con il personale carcerario. In questo modo, Mercurio riesce ad acquisire potere, anche all’interno delle carceri napoletane, acquisendo privilegi e supremazia sui detenuti più deboli, su cui non esitava esercitare estorsioni e angherie.
Mercurio aveva dalla sua parte la bellezza e l’abbigliamento pulito, qualità che gli permisero di diventare un detenuto che riusciva addirittura a fare carriera in prigione, dove esercitava un “mestiere”, ovvero quello di camorrista.
Nell’Ottocento, il termine “camorra” indicava per lo più l’attività estorsiva, con un uso estensivo della parola a partire dal primo Novecento, per indicare abusi di diversi tipi e campi sociali. L’individuazione dei concetti di “camorra” e “camorristi” precedono, quindi, quelli di mafia e mafiosi, affermatosi dopo l’unità d’Italia. È proprio nella Napoli borbonica che si anticipa di parecchi anni un fenomeno che soltanto più tardi si sarebbe affermato come un vero e proprio male sociale.
Il detenuto Giovan Battista Mercurio, può dunque essere considerato come un primo caso di “camorra” carceraria in senso tradizionale.
(cfr. Antonio Fiore, Camorra e polizia nella Napoli borbonica, 1840-1860)