Curzio Malaparte in “La Pelle”: il romanzo che elogia Napoli bandito per 48 anni
Mag 15, 2021 - Serena Palumbo
“Napoli è la più misteriosa città d’Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo moderno. Napoli è l’altra Europa.” con queste parole Curzio Malaparte descrive la singolarità della città di Napoli nel suo libro La pelle.
Chi era Curzio Malaparte
Kurt Erich Suckert, letterato e giornalista di origine per metà toscana e metà tedesca, è stato uno degli scrittori italiani del Novecento più letti in Europa. Animato da una spiccata voglia di contraddizione e un forte credo fascista, scelse come suo pseudonimo Malaparte per contrapporsi con ironia alla grandiosità di Napoleone Bonaparte.
Edito nel 1949, il suo romanzo La Pelle mostra il dolore della città partenopea in uno dei suoi momenti storici più difficili: il processo di liberazione del Sud d’Italia dai Nazifascisti. Gli eserciti alleati entrarono a Napoli nell’ottobre 1943 come liberatori, ma le aspettative furono presto tradite. Diffusero per la città una peste, che non dilagava tra i corpi, ma tra le anime dei napoletani. Una malattia sociale che costringeva donne e uomini napoletani a subire atroci malvagità da coloro che li avrebbero dovuti rendere liberi. La peste era nella mano pietosa e fraterna dei liberatori: soccorritori e oppressori allo stesso tempo. Salvatori che abusavano di chi avrebbero dovuto liberare, con la credenza e la giustificazione che un vincitore può tutto su un vinto.
Napoli viene rappresentata in La Pelle come un teatro di morte e i napoletani come un popolo distrutto, che si muoveva tra l’accettazione della sconfitta e la felicità apparente della liberazione. Una città accecata dalla sofferenza e pronta a tutto per la sopravvivenza.
Ma questa rappresentazione cruda del capoluogo partenopeo e degli abusi che in esso avevano luogo è costata cara al capolavoro di Curzio Malaparte. Nel 1950, infatti, fu messo all’Indice dei libri proibiti dal Vaticano e riabilitato solo nel 1998 dall’allora sindaco di Napoli Antonio Bassolino.
Senza alcun dubbio una lettura poco attenta del testo fa emergere un’immagine della città di Napoli denigrante e umiliante, complice la brutalità di molti temi evocati, ma il senso più profondo è diametralmente opposto a ciò per cui è stato condannato. Curzio Malaparte voleva mostrare come il valore umano dei vinti, i napoletani, fosse superiore a quello dei vincitori, i liberatori-oppressori. Una contrapposizione capovolta tra vincitori e vinti: chi è stato sconfitto ha conservato la propria umanità, chi ha trionfato si è macchiato di atroci reati.
Consequenziale è la domanda che il romanzo evoca nei lettori: chi sono i veri vincitori? Curzio Malaparte, come Pier Paolo Pasolini con la sua celebre domanda “Qual è la vera vittoria, quella che fa battere le mani o battere i cuori?”, fa riflettere il suo destinatario su cosa sia giusto, oltre le apparenti convenzioni sociali, che ci portano a vedere in una posizione di vantaggio chi commette azioni ignobili.
Ciò che dunque ne deriva è un elogio del popolo partenopeo non compreso, ma anzi oscurato per 48 anni.