Le “due Napoli” di Domenico Rea: il racconto della città tra realtà e finzione letteraria
Gen 06, 2022 - Concetta Formisano
Di racconti su Napoli ne è piena Napoli e ne è pieno il mondo. Eppure, di saggi che abbiano il sapore di un racconto crudo e reale della città ce ne sono ben pochi. Domenico Rea (1921-1994), scrittore e giornalista napoletano che ha scritto da Napoli, di Napoli e per Napoli, ha iniziato a “denunciare” questa mancanza sin dalla sua prima pubblicazione, Spaccanapoli (1947).
Nel novembre dello scorso anno, dunque, la Libreria Dante & Descartes, grazie a Lucia Rea, figlia del sopracitato Domenico e custode delle pagine paterne, ha dato alle stampe Le due Napoli, saggio comparso per la prima volta nella rivista “Paragone” nel 1951. In questa sede, Rea presenta quelle che per lui sono le due facce della città e stavolta non si tratta della solita “Napoli bene” in contrapposizione con la Napoli del “basso” e della miseria.
Le “due Napoli” di Rea sono la città reale e quella letteraria, ormai inscindibili all’occhio dei forestieri quanto all’occhio degli stessi napoletani. La città letteraria, teatrale, tragicomica e, sotto sotto, fittizia, è diventata per chiunque guardi Napoli e i suoi abitanti immagine perfettamente sovrapponibile a quella della città reale, l’immagine di una Napoli che “sottomette la miseria al colore”.
Della Napoli reale pochi (o forse nessuno) è riuscito a parlare: questo perché sono i napoletani stessi “che han finito per credere di essere simili ai personaggi cantati, narrati e rappresentati dai loro scrittori” e che, addirittura, “quando qualcuno ha tentato la via della verità, per primi i napoletani si sono ribellati” come se si sentissero realmente il tipo di personaggio da sempre narrato nella musica, nel teatro, nella letteratura.
E dunque, il racconto è più realistico se viene fuori dalla penna di un forestiero o da quella di un napoletano? Sebbene il napoletano venga da quello che, riprendendo un titolo della Serao, è il “ventre di Napoli” (1884), egli stesso non riesce a raccontare la città vista dal “fondo del pozzo” e continua a guardarla dall’alto con la pretesa di restituirne la più fulgida delle immagini grazie al suo esserne cittadino.
Forse, quindi, il forestiero riesce a gettare sulla città un occhio più lucido, non appesantito dall’immagine di se stesso che il napoletano si fa cucire addosso. Nonostante ciò, il forestiero porta certamente con sé un pregiudizio (non necessariamente negativo, semplicemente un’idea di fondo su Napoli e sul “carattere dei napoletani”) che rende complessa la veridicità anche del suo racconto.
Di certo il racconto che Goethe (1749-1832) fa di Napoli, è la cronaca di un soggiorno pieno di fascino. Uno dei più lucidi racconti di stranieri sulla città, dunque, è sicuramente la Napoli Porosa di Walter Benjamin (1924). Attraverso un percorso simile di analisi di opere straniere e autoctone, Domenico Rea, in poco più di cinquanta pagine, cerca tra i racconti di vari autori che hanno scritto di Napoli un racconto che sia il più vicino possibile alla realtà della città.
Per Rea, in ultima analisi, una delle immagini migliori della città la restituisce Boccaccio (1313-1375) nella quinta novella della seconda giornata del Decameron (1350-1353): la vicenda di Andreuccio da Perugia narrata da Fiammetta. Nella sua ricerca della migliore immagine possibile di Napoli, inoltre, Rea non si esime dal farsi critico delle opere che non reputa all’altezza del compito.
“Sembra incredibile che la Serao, la più grande scrittrice italiana, non abbia saputo trarre dal Ventre di Napoli un’opera che sapesse puntare direttamente alle cose come seppe fare Verga, che spogliò le cose del folclore siciliano e le rese nude e terribili” dice Domenico Rea di Matilde Serao (1856-1927). Ma, oltre al darsi alla critica letteraria, Rea non risparmia nemmeno il teatro prendendo come esempio la Napoli Milionaria di De Filippo (1945).
Napoli Milionaria, in effetti, così come specifica la storica Gabriella Gribaudi nel saggio Napoli 1943. Memoria individuale e memoria collettiva (1999), diventa per i napoletani fonte di estrema immedesimazione diventando “l’immagine ufficiale e riconosciuta della Napoli dell’occupazione alleata”, quell’opera teatrale che fa sì che sia “pressoché impossibile trovare un napoletano che non la conosca perfettamente”.
Dunque, ciò che accomuna tutte le opere che narrano di una città letteraria, fittizia, romanzata, teatrale, è proprio il fatto di essere riuscite a penetrare nell’immaginario comune ma, soprattutto, nell’immagine che i napoletani stessi hanno e promuovono di se stessi. Esemplificativo a questo scopo, infine, è l’amaro resoconto che Rea fa di questa situazione:
“Basta sapere che Tizio o Caio sia napoletano perché si abbia gusto di ascoltarlo o lo si inviti a cantare una canzone. E lui parla e canta, per non deludere. Ma quando ha finito di parlare e cantare, ossia di divertire il positivo forestiero […] costui sembra dirgli: “Caro napoletano, ora ho da fare, con la tua spensieratezza non si mangia”. E il napoletano resta solo con la sua miseria […]. Questo momento di grandiosa solitudine e meditazione sul suo destino in cui resta il napoletano non è stato mai né cantato né rappresentato”.