VIDEO/ Massimo Troisi, l’esilarante ed amara gag del 1977: “A Napoli si muore a tarallucci e vino”

Massimo Troisi e la scenetta che racconta la Napoli degli anni '70


Massimo Troisi e quel racconto agrodolce della Napoli degli anni ’70: la scenetta del giovane attore di San Giorgio a Cremano che ancora oggi fa ridere e riflettere.

La Napoli del 1977 raccontata da Massimo Troisi

Grottesca, melanconica, beffarda: ironica ed autoironica come solo Massimo Troisi sapeva essere. Con i modi timidi, quasi sommessi, tipici del suo genio comico seppe imporre una regola non scritta: di Napoli possono parlar male solo i napoletani.

Massimo sapeva farlo indorando una pillola dolorosissima con lo zucchero delle sue esilaranti battute, molte rimaste nella storia e nei modi di dire di tanti napoletani che hanno avuto la fortuna di ammirarlo.

Tutti quelli che sono nati troppo tardi stanno oggi godendo questa poesia dai film, dalle scenette immortalate e riversate su internet, nel racconto perenne di una Napoli gattopardesca che resta nei pregiudizi dell’immaginario collettivo anche dopo 50 anni. Dove tutto cambia e tutto resta com’è.

Sanità, acqua, disoccupazione: quando Troisi “la toccava piano”

Uno sketch storico di quella che oggi si chiamerebbe “stand up comedy” comincia con un pezzo in cui Troisi finge di fare un saluto in Eurovisione per i lavoratori napoletani emigrati: “A Napoli stiamo benissimo! C’è industria e commercio, state tranquilli”. E poi: “È finita l’Eurovisione? Stiamo tra di noi? A Napule stamm”nguaiat!”.

Troisi tocca tutti i problemi della Napoli del 1977. ‘La tocca piano’, si direbbe oggi. A cominciare dall’acqua: “Il napoletano sta con l’acqua alla gola! E quindi si sono presi l’acqua… a Napoli c’è gente che con l’acquedotto invece di bere ci mangia!”.

Poi sulla sanità e sulla mortalità infantile di quei tempi: “A Napoli non conviene nemmeno essere bambini. Invece di dire ‘Tieni tutta la vita davanti’ si dice ‘Tieni tutta ‘na morte annanzo! Ormai quando nasce un bambino si chiede ‘Dottò: è maschio, femmina o virus? Una signora nel mio palazzo ha partorito un virus di 6,5 kg”.

Immancabile, poi, il tema del lavoro: “La disoccupazione? La stanno risolvendo con gli investimenti. Però con un camion quanti disoccupati ponno investi’ ? Uno, duje ? Chilli so tant”e lloro! Se davvero ci vogliono venire incontro devono fare i camion più grandi”.

“Ecco perchè ci chiamano il Mezzogiorno d’Italia…”

Poi sull’emigrazione, tema ancora terribilmente attuale: “Il governo però si è fatto sentire con un comunicato, dicendo che i napoletani non dovranno più emigrare in Svizzera. Il governo svizzero, però, non quello italiano”.

Sembra parlare della Napoli di oggi anche riferendosi al problema abitativo: “Il blocco dei fitti? Il napoletano si è fissato che è una malattia nuova: va dal proprietario, appena sente il costo del fitto rimane bloccato”.

Per poi concludere con quell’amara presa di coscienza, fil rouge di 160 anni di storia unitaria: “Abbiamo capito anche perchè ci chiamano Mezzogiorno d’Italia: perché a qualsiasi ora scendevano al Sud era l’ora adatta pe’ ce magna’ ‘a copp’. Poi dicono che ‘o napulitan è bello, allegro, canta, ride, tene ‘a musica int”e vvene: pe’ forza, ‘o sangue ce l’a’ta tirato tutto quanto!”.

Finisce così questa scenetta, con l’intervento degli altri due pilastri de “La Smorfia”, Enzo Decaro e Lello Arena, e quella canzone cantata a tre voci dal ritornello rimasto iconico: “Tarantella, canzoni, sole e mandolino: a Napule se more a tarallucci e vino”.

 

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