L’eccezione, è ovvio, c’è sempre, ma su tutte le tavole di Napoli, come quelle di un po’ tutto il Sud, a Natale (o meglio, la vigilia di Natale) una cosa non deve assolutamente mancare: il capitone, al quale la smorfia napoletana ha attribuito un numero tutto suo, il 32.
Il capitone è la femmina dell’anguilla, e viene chiamata così a causa delle dimensioni più grosse della testa riguardo agli esemplari di sesso maschile, rispetto ai quali è anche più lungo e grosso. A differenza dell’anguilla, il capitone risale i fiumi, perciò è possibile trovarlo sia in acqua dolce dolce che salmastra, oltre che in mare, tuttavia questo pesce è considerato in pericolo di estinzione a causa della pesca intensiva, mentre è poco sensibile all’inquinamento: per questo motivo è ancora possibile trovarlo e pescarlo alla foce del fiume Sarno, uno dei più inquinati d’Europa, nelle cui acque sono presenti elementi estremamente tossici – povero chi lo mangia.
Ma perché secondo la tradizione a Natale il capitone deve essere sempre presente? Ancora una volta il motivo si trova nella superstizione: esso è molto simile al serpente, che secondo il Cristianesimo è l’animale che rappresenta il male, le cui sembianze assunse Satana per tentare Eva e farle mangiare il pomo proibito, condannando l’umanità alla morte. Col Natale si festeggia la nascita di Gesù, l’avvento del Salvatore che con la sua morte ha redento gli uomini da tutti i peccati, dunque mangiare il capitone significa mangiare il serpente, un atto simbolico e di buon auspicio. Motivi più pratici e materiali, invece, spingono a credere che dietro questa credenza vi sia un’utilità pratica, che consiste nel fatto che il capitone è un pesce molto grasso, in passato davvero comune e accessibile anche a chi aveva pochi mezzi economici, ideale per chi aveva bisogno di mangiare qualcosa di sostanzioso e, perciò, la superstizione ha avuto la funzione di incoraggiare la gente a mangiarlo.