Il “garum“, l’antica salsa ottenuta dal pesce azzurro, era non solo un ottimo condimento, ma anche la giusta medicina per guarire ulcere, ustioni e morsi di coccodrilli. Leggendo la letteratura antica, quindi, non deve sorprendere come nelle dispense di un antico pompeiano troviamo assemblati proprio come una piccola biblioteca, ingredienti, condimenti che venivano utilizzati come ricettari naturali, profumati e salutari. Ancora oggi ritroviamo queste usanze nelle abitudini dei nostri nonni, quando per la cura delle pelle spesso si consiglia lievito di birra o la buccia di anguria. Laddove infatti non esiste la possibilità di cure mediche come in alcune comunità primitive e nelle aree sottosviluppate sono i proprio i prodotti della terra a fungere da medicina.
La letteratura classica ci fornisce una serie di prodotti, dalla farina all’olio, dal succo di limone alla salvia: piante, resine aromatiche che se unite ad olio o vino erano prodotti utilizzati sia per la cosmesi che come prodotti farmaceutici. Ancora oggi sono utilizzati piccoli espedienti: una fetta di limone o un infuso di alludo per curare la nausea; allo stesso modo gli estratti animali come nel caso di molluschi e pesci utilizzati per curare malattie, è il caso della cenere dei murici per la parotite mentre la malaria veniva curata con il fegato di delfino.
Questo piccolo percorso si propone la scoperta degli ingredienti, i condimenti che, se da un lato, sono diventate la base della tradizione culinaria italiana dall’altro oggi nessuno mai si sognerebbe di presentare a tavola.
Gli ingredienti. Per ciò che riguarda i prodotti di origine vegetale, cereali e legumi anche duemila anni fa erano i più diffusi, essendo un ottima fonte di energia per il nostro organismo. Ippocrate li menziona ancora una volta nell’ambito “farmaceutico”, somministrando una farinato o un decotto a base di cereali, vite e olivo, mentre il frumento tenero si prestava meglio per l’uso dolciario. E ancora ceci, lenticchie, piselli, fave, il cosiddetto “fagiolo dall’ occhio”, cicerchie, ridotte in farina o consumate cotte in zuppa.
Aromi che oggi danno odore ai nostri piatti, un tempo erano piante medicamentali come il basilico, la maggiorana o il timo, mentre il cerfoglio o la santoreggia, erano solo condimentarie. Per il resto troviamo alcune delle verdure consumate anche oggi con qualche eccezione: cavoli, lattuga, rucola, cicoria, cardi, il crescione, il coriandolo, il cerfoglio, l’aneto, le carote, il sedano, l’aglio, le cipolle, il papavero, l’agretto, la ruta, la bietola, il porro, le rape, i navoni, l’origano, l’ indivia, il basilico, gli asparagi, la menta, la zucca, i cocomeri, i cetrioli, il rafano, la malva etc.
Tra le piante selvatiche si ricordano il pungitopo, la vitalba, la ferula, il finocchio di mare, il sonco, il ramolaccio, il lapato, il tamno, la canna, il macerone, la scilla, identificata con il muscari e tante altre. Il nasturzio, ossia l’erba porcellana che ancora oggi viene raccolta dalle donne vesuviane seccata e poi soffritta; il muscarì, noto come “lampascione” ancora oggi specialità della cucina pugliese e lucana.
“Tenga in dispensa: pere secche, sorbe, fichi, uva passa, uva in marmitte, mele stanziane in doglio e tutti gli altri frutti che è uso conservare, anche quelli selvatici, li conservi ogni anno con diligenza.”
Con questa citazione di Catone è facile capire come la frutta secca era anche allora privilegiata, perché la si poteva conservare il più lungo possibile. Quello che oggi invece di sicuro non troveremo nei congelatori delle nostre cucine sono fenicotteri, pavoni, fagiani e struzzi lessati.
“Gli struzzi d’ Africa superano l’ altezza di un uomo a cavallo e lo vincono in velocità. Hanno la straordinaria capacità di digerire quello che, senza operare alcuna scelta, ingurgitano, ma non è meno straordinaria la stupidità di questi animali che pensano, quando hanno nascosto la testa in un cespuglio, di rimanere invisibili anche nel resto del corpo” Plinio (N. H. X,1)
Riferimenti bibliografici: “Ricettario: i prodotti degli orti di Pompei utilizzati in cucina” Annamaria Ciarallo, Soprintendenza Archeologica di Pompei