Categories: Cultura

“Scétate, Carulí” che a Marechiaro “ll’aria è doce”

L’incantevole borgo partenopeo tra leggenda, musica e poesia

“Mai nella vita mi fu dato di godere di una così splendida visione…”

Non c’è affatto da meravigliarsi se un panorama così suggestivo abbia fatto esclamare ad uno, tra i più grandi letterati del passato, come Wolfang Goethe queste parole colme di ammirazione. Le brillanti sfumature di azzurro e viola delle sue acque cristalline e dei dirupi ondulati e lussureggianti, il profumo intenso delle alghe depositate sugli scogli e dei fiori vivaci che si aprono al sole, il fascino delle antiche e misteriose rovine appartenenti alle sontuose ville imperiali sommerse ormai dalle onde, vestono ancora oggi la nostra bella Marechiaro di un’atmosfera magica ed idilliaca.

Questo affascinante borgo marino e rurale è collocato tra le rocce del quartiere di Posillipo il cui toponimo, non a caso, derivante da un’espressione del greco arcaico – Pausilypon che si può tradurre come “pausa dagli affanni” oppure “tregua dal dolore” – connotava proprio questo tratto del golfo come un luogo di riposo, lontano dai trambusti della città, un luogo capace di alleviare le pene, insomma.

I lidi euplei, corrispondenti all’odierna Marechiaro e consacrati dai greci alla Sirena Euplea protettrice di Posillipo, divennero celebri in epoca romana, per la presenza di grotte capaci di prestare riparo ad ogni tipo di imbarcazione, per le maestose ville di Lucullo, di Cicerone, di Pompeo, di Vedio Pollione, per la Scuola del sommo Virgilio, per la fertilità delle terre e delle acque.

Tra Marechiaro e l’attuale isolotto della Gajola si costituì, in breve tempo, un piccolo modello di città romana con tanto di impianti termali, un teatro, un odeon, aule dedite alla pratica di attività sportive e culturali. Rappresentava un simbolo di fama e prestigio – nonché una vera e propria moda –  possedere una villa in questo sito di Posillipo per i ricchi della Roma augustea.

Eppure il celebre e passionale toponimo di Marechiaro non deve le sue origini alla trasparenza delle sue acque marine come si è portati più facilmente a pensare, bensì al termine latino mare planum (mare calmo) di cui abbiamo testimonianza grazie a un documento di epoca sveva tramandato dai Doria in cui si menziona “ad Sanctum Mariam dellu fara seu ad marum planum”. La frase fa riferimento alla chiesa di Santa Maria del Faro o di Mare planum, di origini ancora dibattute e restaurata in età barocca che secondo la tradizione fu eretta sulle rovine di un tempio pagano e di un antichissimo faro dedicato alla Sirena Euplea, considerato la stella che guida i naviganti come riporta il poeta latino Papinio Stazio. Fu proprio la chiesa, pertanto, che diede il nome al borgo sorto sulle rovine delle ville dei patrizi romani. Dal latino mare planum all’italiano mare piano il toponimo è sfociato al napoletano mare chianu e quindi alla forma alterata ma poi adottata da tutti marechiaro.

Immortalata da innumerevoli pagine di storia, di saggistica, di poesia e letteratura Marechiaro ha ispirato con il suo suggestivo scenario anche numerosi musicisti. Più di un centinaio, secondo l’archivio della canzone napoletana, le canzoni dedicate a questo lembo di Posillipo. Senza dubbio il più celebre componimento è quello di Salvatore Di Giacomo e Francesco Paolo Tosti Marechiare (1885) che, per la bellezza dei suoi versi, contende a “O sole mio” il primato della notorietà tra le canzoni classiche napoletane. La famosa fenestrella che il poeta evoca ha contribuito a mitizzare ancor di più il leggendario borghetto marino.

Fu un successo clamoroso infatti e sebbene Di Giacomo non avesse mai visitato questo luogo prima della stesura del componimento e lo avesse solo immaginato, quella finestra esiste, o meglio pare sia stata “ricreata” poco dopo per iniziativa di un oste, titolare di una locanda a Marechiaro che si occupò di far ricostruire nel dettaglio lo scenario caratteristico descritto nella canzone. Ancora oggi il davanzale della finestrella è sempre adornato di garofani freschi e profumati e posta sotto di esso vi è una lapide di marmo a forma di pentagramma con sopra inciso lo spartito della canzone per ricordarci che “Quanno spónta la luna a Marechiaro, pure li pisce nce fanno a ll’ammore…”.

E a noi piace pensare che sia proprio così, in fondo perché non crederci?