Fondatore del Partito Comunista Italiano (Livorno, 22 gennaio 1921), Antonio Gramsci, nato ad Ales nel 1891, è stato uno dei politici ed intellettuali italiani più attivi della storia d’Italia, a cui ha lasciato un patrimonio inestimabile di idee e non solo. Ha trascorso più di di dieci anni nelle carceri fasciste, che hanno messo a repentaglio e dura prova la sua salute. Oltre alla carica politica, ha ricoperto anche il ruolo di critico letterario, filosofo e giornalista. È morto a Roma all’età di 46 anni, il 27 Aprile 1937. Il pensiero di Gramsci non si esaurisce solo all’ambito polito ma tocca anche la sfera dell’etica e della filosofia.
Alcuni cenni sulla formazione accademica e sull’attività politica: nel 1911 ha intrapreso gli studi umanistici, presso la facoltà di Lettere a Torino, senza mai conseguire la laurea per dedicarsi interamente all’attività politica nell’ambito del Movimento Socialista. Ha fondato, nel 1919, il cosiddetto “Ordine Nuovo”, simbolo della classe operaia. Significativo anche l’incontro con Lenin, in Unione Sovietica nel 1923. Il calvario presso le carceri inizia nel 1926: viene arrestato dai fascisti e condannato a venti anni di reclusione. Tuttavia riesce ad avere uno sconto sulla pena. Nel 1929 inizia a scrivere, presso il carcere di Turi, “I quaderni dal carcere”, che sintetizzano il suo pensiero e riflessioni e teorie in ambito sociale, culturale e naturalmente politico. Secondo lui, solo un intellettuale, “divulgatore della cultura”, sarebbe in grado di dirigere la classe operaia e contadina per educarla e far sì che possa trasformarsi in quella dirigente, cosa che non accadeva in Italia. Fu il fascismo a generare crisi all’interno della società borghese.
“Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti.”: scrive nel 1920, in riferimento al Regno d’Italia, costituito sotto il dominio della monarchia sabauda.
Nel 1926 scrive un saggio relativo alla questione meridionale, intitolato “Alcuni temi sulla quistione meridionale” incentrato sugli anni dal 1894 al 1898, che ripercorrono il periodo dei moti dei contadini della Sicilia, l’insurrezione di Milano, repressa dal governo Rudinì. Secondo il suo pensiero, la società meridionale era formata da tre classi, ovvero i contadini e braccianti, che non avevano peso nello scenario politico, i medi contadini, che vivevano con il ricavato della terra, che non lavoravano però direttamente, e dai proprietari dei terreni, attivi nella formazione intellettuale. Basta pensare a personalità eccelse come Benedetto Croce. La questione meridionale è intesa come “fatto” politico e storico allo stesso tempo: da essa dipendeva e dipende il futuro dell’Italia stessa.