Voleva essere veloce, più veloce del vento, che soffia tra gli alberi e increspa le onde del mare, e così ha sfidato dapprima i suoi avversari e, poi, se stesso. Lui, il più grande atleta italiano di tutti i tempi, che da adolescente faceva a gara sulle colline pugliesi con le auto, Porsche o Alfa Romeo che fossero, per batterle in velocità. Lui, anima da fuoriclasse in un corpo normotipo; lui dei 19’72 secondi. Lui, la Freccia del Sud. Lui, Pietro Mennea.
Nasce nei primissimi anni ’50, il 28 giugno 1952, a Barletta, dove non ci sono strutture che lo possano aiutare a crescere atleticamente, ma dove si forgiano il carattere e la sua voglia di lottare che lo porteranno, più tardi, a essere un campione dall’incredibile palmarès: un oro e due bronzi olimpici; tre oro, due argenti e un bronzo agli europei; un argento e un bronzo ai mondiali. Una carriera atletica brillante e internazionale, cominciata nel 1971 con la guida dell’allenatore marchigiano Carlo Vittori e contrassegnata da significativi traguardi, uno dei quali ha spalancato a Pietro Mennea le porte della storia sportiva e della gloria imperitura. Il riferimento è alla sua partecipazione nel 1979 alle Universiadi di Città del Messico, quando sui 200 metri piani stabilisce il record mondiale, non ancora superato in Europa, di 19’72 secondi. Un risultato rimasto imbattuto a livello mondiale per 6018 giorni, oltre 16 anni, e difatti è soltanto ai trials per i giochi olimpici di Atalanta 1996 che Michael Johnson fissa un nuovo primato di 19’66. Mennea, provato dallo sforzo fisico, sudato nonché emozionato, con tali parole commenta la sua vittoria:
«Sono undici anni che vado alla ricerca di un risultato del genere e che finalmente adesso sono riuscito a trovare. Adesso anche io sono primatista nel mondo. Un ragazzo del sud oggi è riuscito a fare il record del mondo. Questo sport è umile e io sono partito con umiltà ed è venuto fuori questo record».
L’anno dopo, nel 1980, è ancora campione olimpico a Mosca nei 200 metri, battendo per due centesimi di secondo l’avversario Allan Wells e aggiudicandosi un ulteriore oro. Insomma, dalla seconda metà degli anni settanta fino agli inizi degli anni ottanta, il fuoriclasse barlettano s’impone come il miglior duecentista del pianeta al punto da accaparrarsi una degna posizione nell’immaginario collettivo e culturale di quel preciso periodo. Non a caso egli è citato in diverse pellicole cinematografiche, tra cui: Brutti, Sporchi e Cattivi diretto da Ettore Scola nel 1976, Febbre da cavallo, film dello stesso anno di Steno, I padroni della città di Fernando Di Leo e Travolto dagli affetti familiari di Mauro Severino. Le echi della sua fama, alimentata dalla sua mai doma forza di volontà, dall’inarrestabile piacere di misurarsi con se stesso, inoltre, hanno fatto di Mennea una vera icona, alla quale ancora oggi, anche dopo la sua morte, si continua a volgere lo sguardo. Lo dimostra la sua frequente presenza nella cultura di massa: è il 2002 quando Samuele Bersani, il noto cantautore bolognese, in Che Vita! fa ironicamente riferimento al grande corridore mettendolo in coppia con Sara Simeoni.
Che vita!
Pietro Mennea e Sara Simeoni
Son rivali alle elezioni.
Iniziative che, dopo la sua morte nel marzo del 2013, sono palesemente aumentate. Nel giorno stesso della sua dipartita, le Ferrovie dello Stato hanno deciso di intitolare a Pietro Mennea il primo treno Freccia Rossa Etr-1000 (il treno del Sud che non percorrerà il Sud), capace di arrivare a 360 km/h, ed entrato in vigore questo 14 giugno sulla rotta Napoli-Roma-Milano-Torino. Sempre dal 2013, inoltre, ogni 12 settembre, l’atletica leggera italiana celebra il Pietro Mennea Day per ricordare la giornata del record mondiale e, in ultimo, ma non per importanza, la Rai quest’anno ha realizzato una miniserie tv in due puntate, Pietro Mennea- La Freccia del Sud, con la regia di Ricky Tognazzi e l’interpretazione di Michele Riondino, nei panni del fuoriclasse, e Luca Barbareschi.
Un uomo di per sé schivo; un atleta forse scomodo per tutta la cattiva coscienza dell’atletica italiana, che più volte Pietro lascia nel corso della sua carriera sportiva, perché timoroso che lo sport, il suo sport, amore e passione di una vita, stia perdendo l’umiltà e la purezza che egli gli ha sempre attribuito. In un articolo apparso sulla Repubblica l’11 agosto del 1987, Finalmente corro per me, il campione olimpico dà la conferma di ciò: «In questa società cosiddetta del tempo libero c’è chi va a caccia, chi a pesca, chi corre quel rito di moda che si chiama maratona dentro la città, un rito tra l’altro molto sponsorizzato, c’è chi va in palestra, chi a donne e chi nei casinò. I, invece, ho scelto di correre, ma veloce, per un gusto appreso da ragazzo, quando sfidavo le motorette sui 50 metri, e che non è mai passato. Così, abbandonata l’attività di atleta vincente, per mille motivi, non ultimo che dovevo gareggiare con troppa gente “preparata” chimicamente, non ho saputo o voluto lasciare quello che per me è stato il divertimento di tutta una vita, l’allenamento».
Mennea, però, per quanto devoto con tutto se stesso alla corsa, nell’arco della sua esistenza si dedica proficuamente anche agli studi, come dimostrano le quattro lauree in Scienze Politiche, Giurisprudenza, Scienze dell’educazione motoria e Lettere. Il nostro recordman, dunque, che nella stagione 98-99 è dirigente generale della Salernitana, grazie alla sua preparazione, si impone al grande pubblico anche come eurodeputato a Bruxelles dal 1999 al 2004, come avvocato, come docente universitario presso l’Università Gabriele D’Annunzio di Chianti-Pescara e come autore di libri. Insomma, un’indole proteiforme capace di misurarsi in ogni campo professionale e sempre pronta a rinnovarsi e, del resto, è così che in un un’intervista del 2012 al Corriere del Mezzogiorno parla di sé: «Non si può vivere di ricordi. Ogni giorno bisogna reinventarsi, avere progetti, ambizioni. Perciò, ho tante idee e sogni che voglio realizzare. Sono impegnatissimo».
A due anni dalla sua scomparsa, oggi, in quello che sarebbe stato il giorno del suo compleanno, non si può non sentire la mancanza di una personalità così tanto valida, sicuramente ancora viva nei ricordi di chi ha potuto conoscerlo, e che sarebbe stata d’esempio per chi, suo malgrado, non ha potuto avere questo privilegio.