L’intera fondazione monumentale dei Santi Severino e Sossio, unico monastero dell’ordine benedettino a Napoli, si articola in quattro chiostri e due chiese: una dedicata ai due santi e l’altra rappresentata dalla chiesa inferiore (oggi non visitabile).
Nell’846 i monaci fondarono il monastero nell’entroterra, vicino ad un corso d’acqua, in seguito alla fuga da quello di Pizzofalcone, insidiato dei saraceni. All’interno della piccola chiesa, nel 902, furono portate le reliquie di San Severino, abate benedettino evangelizzatore del Norico (attuale Austria centrale). Risale al 904 l’arrivo delle spoglie di San Sossio, il cui ritrovamento è da collegarsi ad una curiosa vicenda. I monaci cercavano materiale di spoglio per la costruzione della loro chiesa e provvidenza volle che, tra i ruderi del castello di Miseno, ritrovassero anche le ossa del santo martire. Sossio fu infatti decapitato con San Gennaro a Pozzuoli, durante le persecuzioni cristiane volute dall’imperatore romano Diocleziano.
Nel 1490 iniziarono nuovi lavori di ampliamento, e quattro anni dopo i benedettini ebbero una donazione di 15.000 ducati da parte di Alfonso II d’Aragona. I lavori si fermarono nei primi del ‘500, per essere ripresi solo nel 1537 su disegno di Giovan Francesco di Palma, allievo di Giovanni Donadio detto il Mormando, architetto toscano della chiesa inferiore quattrocentesca oggi chiusa.
Tra il 1560 e il 1570 fu eseguito, sul retro dell’altare maggiore, un coro ligneo che in breve divenne un vero e proprio modello per gli intagliatori di legno di fine Cinquecento, anticipando addirittura l’arte decorativa barocca. Gli autori del complesso furono il romano Bartolomeo Chiarini e il bresciano Benvenuto Tortelli.
Purtroppo oggi il coro si presenta privato di alcune statuine in legno di santi, un tempo incorporate in piccole nicchie, rubate per rimpolpare il mercato illegale dell’antiquariato. I monaci, per decorare la loro chiesa, si affidarono sempre a pittori fortemente legati ai cantieri benedettini come il senese Marco Pino le cui opere sono presenti in ben quattro cappelle.
Nel ‘600 i benedettini affidarono al tardomanierista Belisario Corenzio gli affreschi della volta della navata e del transetto, in parte crollati con i terremoti, e al barocco rutilante di Cosimo Fanzago il disegno per l’altare maggiore completato solo nel 1783.
I terremoti del 1688 e 1731 fecero sì che l’architetto Giovan Battista Nauclerio (uno dei maggiori architetti che operarono tra ‘600 e ‘700), negli anni 1715 – 1738, si prendesse cura della stabilità della chiesa. A questi è attribuibile la ristrutturazione della volta e della parete superiore. Negli stessi anni Francesco De Mura dipinse nella navata un ciclo di affreschi e di tele, sostituendo i dipinti di Corenzio e portando a Napoli il nuovo gusto Rococò (stile ornamentale di origine francese che corrisponde alla fase finale del Barocco caratterizzato da sfarzo ed eleganza).
Oggi la chiesa si mostra a croce latina ad unica navata, con profonda abside rettangolare, sette cappelle per lato e pavimento marmoreo del ‘500.
I nuovi restauri hanno confermato che l’architettura della sagrestia riprende quella dell’antica chiesa quattrocentesca del Mormando. Per questo si tende ad attribuire al suo allievo, Giovan Francesco di Palma la costruzione della sagrestia.
La volta e le pareti si presentano affreschi del 1651 con storie dell’ Vecchio Testamento di Onofrio De Lione (allievo di Belisario Corenzio). Nel 1995 due lunette crollarono a causa di un’invasione di termiti che consumarono l’incannuciato del soffitto. A peggiorare lo stato di conservazione, i restauratori hanno dovuto far fronte anche ad alcune fastidiose infiltrazioni d’acqua.
Anche gli arredi lignei che impreziosiscono la sagrestia sono stati attaccati dalle termiti oltre che da dissesti di struttura, ante divelte, scollamenti e marcescenze. Prima degli interventi di restauro tutte le superfici si erano cromaticamente alterate.
Finalmente, grazie alle diagnosi e agli interventi sugli affreschi, sull’arredo ligneo e sul pavimento marmoreo, possiamo visitare e godere lo splendore dell’intero ambiente.
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Foto Francesca Perna