Jusepe de Ribera, “Lo Spagnoletto”: lo spagnolo-napoletano che dipinse l’anima di Napoli
Set 03, 2015 - Germana Squillace
Il 2 settembre 1652 muore a Napoli Jusepe de Ribera, uno dei maggiori esponenti della scuola partenopea. Essendo morto nella nostra città vi aspettereste di poter andare a visitare la sua tomba, ed effettivamente il suo certificato di morte porta come luogo di sepoltura Santa Maria del Parto ora nota come della Catena. Eppure a causa dei vari lavori che si sono succeduti nel tempo in questo edificio, il pavimento è stato rifatto negli anni ’50, della tomba del noto pittore non vi è più traccia. Ma questo non deve scoraggiare. Piuttosto che le sue ossa, lo Spagnoletto, così fu chiamato Ribera per la sua bassa statura, ha lasciato come eredità le sue opere, la maggior parte realizzate proprio a Napoli.
Nato a Jàtiva, in Spagna, nel 1591, si forma a Valencia sotto la guida di Francisco Ribalta. Successivamente si sposta tra il Nord e il centro Italia, in Lombardia e in Emilia Romagna, e poi si trasferisce a Roma dove dipinge la serie dei “Cinque Sensi”. In questo primo periodo della sua vita Ribera è particolarmente influenzato dallo stile di Caravaggio e realizza opere che imitano quelle di Tintoretto e Correggio. Il pittore può essere definito il vero erede di Michelangelo Merisi poiché si appropria dei suoi colori e del suo stile. Anche se la pittura dello Spagnoletto è più drammatica e tenebrosa. In particolare sceglie di rappresentare la realtà dando risalto ai dettagli con pennellate dense e cariche di colore che sottolineano i chiaroscuri. Tra il novembre del 1616 e il febbraio del 1617 Ribera arriva a Napoli. Qui sposa la figlia di Giovanni Bernardino Azzolino, un noto pittore siciliano che già godeva di un discreto successo nel panorama napoletano. Risalgono a questo periodo le sue opere più importanti. Le prime che esegue a Napoli sono gli “Apostoli della Quadreria dei Girolamini” e i “SS. Pietro e Paolo”. Ma probabilmente il capolavoro che meglio caratterizza questo periodo artistico è il “Sileno Ebbro”, massima espressione della sua adesione al luminismo caravaggesco, oggi custodito al Museo di Capodimonte. Ribera inserisce data e firma sul cartiglio che è tra i denti del serpente nell’angolo in basso a sinistra.
Il trasferimento a Napoli segna però un punto di rottura nell’arte del pittore. È nel capoluogo campano, infatti, che incontra, nel 1630, Velazquez. Da questo momento in poi la sua pittura cambia. Si vede una certa tranquillità nei suoi quadri che sostituisce l’inquietudine che caratterizzava i precedenti. Inizia a usare colori più chiari come si evince nel “Giacobbe”, nell’“Archimede” e nell’“Apostolo”. In questo periodo, per ben cinque anni, si dedica alle decorazioni della Certosa di San Martino eseguendo le quattordici tele con “Patriarchi e profeti, “San Gerolamo”, “San Sebastiano” e la “Pietà”. Ribera lascia anche alcuni lavori ad Aversa, per la precisione nella chiesa di San Francesco delle Monache, dove dipinge sull’altare maggiore della chiesa l’opera “Estasi di San Francesco”. Negli ultimi anni della sua vita lo Spagnoletto si ammala. Nonostante questo, continua a dipingere, tornando ai colori cupi della prima fase artistica, inoltre diventa maestro di Luca Giordano. La sua ultima opera è “Lo storpio” in cui Ribera sembra fare un ultimo omaggio a Napoli: uno scugnizzo dell’epoca che, nonostante la sfortuna fisica, si mostra allegro e sorridente. Come se in un giovane deforme ma fiero e spensierato, l’autore avesse voluto rappresentare tutta l’anima della città.
Fonti: Agnese Palumbo, Maurizio Ponticello, “Il giro di Napoli in 501 luoghi”, Roma, New Compton, 2014
Touring club italiano, “Napoli e dintorni”, Milano, Touring Editore, 2001
Maurizio Cucchi, “Ribera: dipingere l’ eroica miseria”, in “Corriere della Sera”, 2004
Alessandro Chetta, “Dov’è finito il corpo dello Spagnoletto?”, in “Corriere del Mezzogiorno”, 2011