Non tutti i detti napoletani hanno origine in tradizioni tipicamente nostrane. Per questi particolari casi dobbiamo ricordare che Napoli fu, per secoli, capitale di un regno che andava dalla Campania alla Sicilia ed è quindi naturale che abbia assorbito alcune cose dalle altre città del meridione. “Fà l’arte (o opera)’e pupo” è uno di questi esempi, ma, per prima cosa, dobbiamo spiegare i suoi significati.
Infatti, come in molti altri casi, il detto può avere due interpretazioni differenti a seconda del contesto. “Famme fà l’arte ‘e pupo” è detto generalmente con perentorietà da chi sta finendo un lavoro e viene costantemente disturbato: un modo per dire “fammi finire il lavoro, quello che sto facendo, e ti do retta”. In questo caso notiamo come “l’arte ‘e pupo” rappresenta qualcosa di importante ed irrinunciabile che necessità dell’attesa di tutti gli altri.
Viceversa, dire scherzosamente “fà l’arte ‘e pupo” significa accusare qualcuno di star perdendo tempo in qualcosa di inutile e superfluo. Uno sfottò tipicamente napoletano rivolto principalmente a chi cerca di convincere gli altri di essere impegnato in qualcosa di estremamente complesso quando in realtà è una cosa semplicissima. Entrambe le interpretazioni sono legate indissolubilmente ad un’antica arte siciliana: l’arte dei pupi.
I pupi sono quelli che oggi chiamiamo, più comunemente, marionette. Quelli tipici siciliani sono in genere dei cavalieri in armatura con casacche colorate. I veri pupi raffigurano Carlo Magno e tutti i suoi cavalieri immortalati in poemi epici ed antiche leggende: proprio questo folklore fornì le trame dei primi spettacoli di marionette. Col tempo, i meridionali trasformarono quegli innocui spettacoli in qualcosa di più profondo.
Quei cavalieri in miniatura che si bastonavano nelle piazze fra le risate dei bambini avevano nomi di tempi andati, ma per il popolo iniziarono a rappresentare politici, possidenti e sovrani mal digeriti. Non era più il prode Rolando a perire eroicamente sotto i colpi dei mori, ma un onesto palermitano sotto il peso delle gabelle, non era più Carlo ad essere ridicolizzato per scappatelle e perversioni, ma il Borbone di turno.
Nel 1800, secolo critico per la monarchia, l’arte dei pupi era una ‘pazziella’ per i bambini ed allo stesso tempo un’arma per la propaganda, goliardia di piazza e scintilla per una rivolta, sciocchezza e realtà. Oggi sono giocattoli di tempi passati, oggetti da museo e spettacoli per le feste tradizionali di paese. Eppure, la loro ambiguità, la loro doppia natura di gioco ed arte continua a persistere nella doppia interpretazione della semplice frase “fa’ l’arte ‘e pupo”.