Quando a Napoli scoppia la rivoluzione comunemente nota di Masaniello, in Catalogna ha origine la peste causata da un bastimento di pellami proveniente da Algeri. La malattia si diffonde velocemente in Spagna, poi attecchisce in Sardegna nel 1650. Napoli così come gli altri stati d’Italia ha notizia dell’epidemia, perciò si prodiga di escludere ogni contatto con l’isola. Tuttavia i contatti per via mare tra Sardegna e Napoli tardano a chiudersi e ciò fa sì che la peste arrivi anche in Campania.
I primi isolati episodi si registrano già nel gennaio del 1656 e interessano soprattutto la parte povera della città. I sintomi sono mediamente mal di testa, delirio, vomito, febbre alta, sete inesorabile, ghiandole ingrossate, bubboni inguinali, sotto le ascelle e pustole alle cosce. Le persone contagiate hanno pochi giorni di vita.
I napoletani non conoscendo la vera causa vanno alla ricerca di un capro espiatorio. L’ordine sociale dei nobili trova una spiegazione in una vendetta divina perché i popolani si sono rivoltati nel 1647 tentando di sovvertire la gerarchia sociale precostituita. Un’altra voce anti – popolana vuole che la causa sia stato il baccalà a basso costo consumato nei mesi precedenti da una vasta schiera di popolani. Altri la motivano prendendo di mira gli ebrei che portano con loro una polvere contenente la malattia. Invece gli spagnoli sostengono che la polvere contenente la malattia è utilizzata da spie francesi. Si aggiunge all’elenco delle cause anche quella secondo cui la peste ha origine dalle viscere della terra.
Parallelamente gli uomini di Chiesa trovano la causa in un castigo divino. Si ricorda l’abate e rettore di Santa Sofia don Carlo Francesco Riaco, che presagisce il Giudizio Universale proprio nell’anno 1656. I segnali sono tanti: il terremoto, l’eruzione del Vesuvio, la venuta dell’Anticristo che lo vede in Masaniello, l’avvento dell’eclissi del 12 marzo 1655 seguito dalla formazione in cielo di 3 soli, un cuore trafitto da una spada, una mano assiderata e un flagello. Successivamente ci sono vari episodi: la Luna si eclissa, il passaggio di una cometa e infine Saturno che entra nel segno del cancro. Un altro evento è quello registrato da suor Orsola Benincasa, che alcuni anni prima di morire ha svelato una profezia del castigo divino. Ciò sarebbe accaduto con la peste se non si fosse costruito un eremitaggio.
Dal mese di maggio aumenta esponenzialmente il numero di morti, quindi ogni ordine religioso cerca di portare acqua al suo mulino mettendo in scena spettacolari processioni di penitenza cui partecipano tante persone di ogni ordine sociale. Partecipare alla processione significa stare in contatto con tante persone e quindi garantire un più facile contagio. Non mancano i ciarlatani che vendono prodotti “magici” per guarire dalla peste. Tra i “miracolosi” rimedi rientra la pipì, si gradisce quello di bambino perché puro.
Visto lo stato emergenziale, il viceré emana dei provvedimenti che sono eseguiti dalla Deputazione della sanità.
La peste provoca un grandissimo numero di morti, dunque in città tutto è fermo, le istituzioni sono inattive, il commercio è svanito, le chiese sono vuote, i giumenti si trovano senza custodi, le campagne sono desolate, gli accampamenti si presentano senza soldati e le tante barche nel Golfo di Napoli adesso si contano sulle dita delle mani. Più in generale lo schiamazzo della gente in città è assopito dal silenzio della morte, ci sono morti dappertutto, nelle case, per le strade, nelle piazze.
Per togliere così tanti corpi i becchini locali non bastano perché molti sono stati contagiati nel prendere i cadaveri, così i cavalieri e l’Eletto del popolo Felice Basile fanno venire altri dai casali vicini. Oltre a loro ci sono i galeotti, che forniscono il loro aiuto poiché il viceré in cambio li ha resi liberi. I becchini di professione e non hanno un cappuccio al volto, una camicia piegata e gli uncini per prendere i cadaveri e metterli nel carretto.
Ci sono diversi modi per liberarsi dei cadaveri, essi sono ammassati in cataste per essere arsi. Sono seppelliti nel cimitero di San Gennaro fuori le mura, nelle cave dei monti, in fosse scavate al Piano delle Pigne, fuori la Porta di San Gennaro, nella chiesa di San Domenico, in Piazza della Carità, fuori le porte di Piazza Mercato, in spiaggia, oppure sono gettati nel mare di Chiaia. In quest’angoscioso clima, si distinguono gli eroi senza nome: salassieri, preti e medici che hanno sacrificato la loro vita per prestare soccorso agli appestati.
I napoletani utilizzano diversi “rimedi” per evitare il contagio: bruciare di sera ramoscelli, ginepro, rosmarino, incenso e altre piante aromatiche. Quando poi comprendono l’inefficacia nel bruciare piante aromatiche, cercano di trovare un altro rimedio ugualmente insoddisfacente bruciando oggetti maleodoranti. Il cibo è disinfettato nell’aceto, la carta stampata nella calce viva; mentre le lettere nei forni.
Quando il morbo inizia a dare i primi segni di debolezza nel mese di agosto, alcuni ordini religiosi ritornano all’attacco per giustificare l’accaduto tramite il miracolo dei santi o Madonne che lo rappresentano. Successivamente la peste cessa del tutto nel mese di dicembre. Nel complesso i morti sono stati tanti: su circa 454.000 abitanti sono sopravvissuti pressoché 100.00/60.000 persone. Chi è stato l’artefice di aver guarito i napoletani dalla peste? Subito il pensiero cade sulla Madonna e specifici santi della città.
Le tante donazioni vanno a ingrossare le casse di quello o l’altro ordine religioso: infatti i teatini possono costruire la statua di bronzo di Gaetano di Thiene da porre sulla piramide della chiesa di San Paolo. I gesuiti fanno costruire un grande teatro per celebrare le gesta del loro santo: Francesco Saverio. Viene costruita la chiesa dei carmelitani Scalzi di Chiaia. L’obelisco di San Gennaro viene edificato davanti alla porta piccola dell’omonimo Duomo. Si ricorda inoltre che è stato costruito l’eremitaggio della suor Orsola Benincasa.
Il ricordo della peste è stato forte, Mattia Preti immortala sulle porte della città i santi, la Madonna e Gesù Bambino. Micco Spadaro crea una sua opera pittorica proprio a ricordo dell’evento. Tanti testi sono stati scritti per ricordare per l’appunto la malattia che ha attanagliato la città. Non mancano scritti su ciò che è stato dopo la peste come la poesia di Giovan Battista Valentino. Questo descrive di quelli che un tempo sono stati poveri e adesso si sono spaventosamente arricchiti in diversi modi. Lo stile di vita di queste persone è assai goffo perché cercano di imitare i nobili. Inoltre sono inclusi anche giudizi sugli uomini di Chiesa, è il caso di alcuni abati che abbandonano la “sottana” per andare a “puttane”. Riportiamo le parti salienti della poesia:
“Statt’ a sentire, e se la veretate
No ve dico, piglia teme a petrate
Ca chello che ve voglio mo cantare
So cose vere chiare e manifeste,
che succedette sol dopo la peste.
Ed a la mano de ste pettolelle
Dio non ngé che non ha quatt’anelle.
A malappena se potea coprire
Lo capo con a pezza de mappina,
Mo, si la vide, pare na regina!
Mo co la peste siente che fortune!
De case e massarie songo patrune.
Co preammole sauze e testamiente
Fatt’ a la babalà, senza notare,
Sollevate se so mille pezziente
Che non avevano muodo da campare,
De li muore smantennose pariente,
Quanno a chille manco erano compare.
Co l’aiuto perzò de ciert’ ammice
Che ntoscano de dicere no dice.
[…]
Napole mio, e che t’è succeduto,
E comme si de botta sconcertato.
Già ch’ogn hommo de nienete e resagliuto
E chiu de n’hommo buono è sconquassato,
Chi pane non aveva s’è repoluto
E sta co la zietella e lo criato.
Bannaggia quanno maie venne la peste,
Che tanta coppolune fa sta nfesta.
[…]
E becco che s’è muosso no vesbiglio
De nuove amante e nuove nnammorate,
Nfra mmaretate, zite e mmedoalte,
Senza piglià parere né conziglio
D’ammice, de pariente o vecenate,
Ognuno priesto priesto pe sta ntresca
Chi pe denaro e chi ne carne fresca.
Ciente abbate jettaieno la sottana,
Stacciaino le Bezzocche lo soccanno,
Che pe ngadiare na pottana,
Cheste pe s’abbraccia co no melanno
E chi era sta moglie de dottore
S’è nguadiata co no servitore.
E senza fare troppe cerimonie
Faceano parentizze e matrimonie.”
Bibliografia:
De Renzi, Napoli nell’anno 1656: ovvero, documenti della pestilenza che desolò Napoli nell’anno 1656, Domenico de Pascale, Napoli, 1867
Valentino Napoli scontraffatto dopo la peste, Napoli, 1671
C.M.Messinese, Il torchio delle osservazioni della peste di Napoli,Napoli, 1659