Assai spesso l’espressione “provocazione” è utilizzata da chi, per nascondere la carenza di strumenti atti a decifrare il contenuto di un’opera, ricorre al più facile degli escamotages: celarsi dietro una parola dall’altisonante impatto morale, dando così l’impressione di avere realmente qualcosa da dire. Ad onor del vero, non sono poche le opere che meriterebbero, oggi, l’utilizzo di tale espressione, visto il numero sempre crescente di realtà che null’altro hanno da offrire al di fuori di una scialba provocazione fine a stessa. Ma non è questo il caso di “Bestie di scene” di Emma Dante, in replica al Teatro Bellini fino al 10 febbraio, per il quale l’espressione “provocatorio” non può che essere sospetta.
Un gruppo di quindici attori si muove compatto, seguendo uno specifico quanto recondito ritmo interiore, diffondendo nella sala un rimbombante trambusto di passi. Questa è la scena che lo spettatore si trova dinanzi agli occhi, a sipario aperto, non appena accede in platea. Sono i primi atti di un cerimoniale che, di lì a poco, trasformerà i quindici interpreti in autentiche “bestie di scena”.
Il gruppo si scioglie improvvisamente e gli attori, distaccandosi l’un l’altro, iniziano a correre, entrando e uscendo sulla scena dalle quinte. Alla fine della corsa, uno ad uno raggiungono la linea di ribalta e si svestono, rimanendo completamente nudi sul ciglio del palcoscenico. Eccole qui, le “bestie di scena”: quindici bipedi inermi e impacciati che furiosamente cercano di nascondere vulve, seni e peni coprendoli con braccia e mani. Con loro, affiora sulla scena la tonalità emotiva fondamentale della pièce: il terror panico dell’attore, costretto a stare in scena senza scena alcuna. Affiora, lo sgomento, nella terribile consapevolezza di non poter elemosinare un applauso interpretando un “ruolo”. Sprovvisto di rappresentazione, il palcoscenico diviene luogo di tremendi conflitti.
Tutto quello che avviene in “Bestie di scena” è custodito, oltreché riscattato, in una palpabile aurea mistica. Basta tale constatazione per risparmiare alla pièce qualsiasi stucchevole rimprovero di “volgarità”, perché l’esposta nudità delle bestie non strizza affatto l’occhio a chissà quale meschina perversione dello spettatore. Al contrario, la nudità si mostra immediatamente nella sua essenzialità, come un principio di purificazione, necessaria per far vivere all’attore la sua iniziazione più radicale: superare gli escamotages dell’attorialità in vista di qualcosa in grado di eccedere il margine rappresentativo. E’ in tale ottica che “Bestie di scena” si mostra tutta la sua innegabile sacralità: provocare la dissacrazione del linguaggio scenico comune, in vista di un linguaggio più puro, fondato al di sopra di qualsiasi dissacrazione.
Ed è proprio in vista di tale dislocazione linguistica che dalle quinte vengono scaraventati sulla scena oggetti disparati, tasselli visibili di uno scacchiere disposto da un impercettibile deus ex machina, che dal buio delle quinte impone agli attori il loro destino. Così, compaiono una tanica di plastica contenente dell’acqua, degli esplosivi, due aste di legno con dei carillon, delle palle, una bambola parlante, una spada, delle noccioline americane e alcune scope. Seguendo le tracce degli oggetti lanciati sulla scena è possibile ricostruire la genesi, il compimento e la conseguente dissoluzione di un mondo, che dai suoi istinti arcaici e primordiali – la necessità del bene primigenio indicato dalla tanica d’acqua, la necessità della protezione dalle insidie del mondo esterno simboleggiata dal fuoco, fin poi alla ineluttabile inclinazione alla guerra rappresentata dalla spada – si sviluppa a scapito di una comunità di bestie il cui vero fine, in realtà, è il superamento di ognuna delle fasi di tale manifestazione.
Tra le varie insidie che provengono dalle quinte, spiccano, per intensità, due momenti specifici. La prima ha luogo quando sulla scena vengono scagliate delle noccioline. Le bestie iniziano a cibarsene, finché uno di loro sembra regredire, nei gesti e nei movimenti, a livello della scimmia. L’animale si muove rozzamente sul palco, emette striduli incomprensibili, si masturba, guarda il pubblico con sfida e gli sputa addosso la poltiglia di noccioline che sta masticando. Poco dopo, anche un’altra bestia sembra impazzire, questa volta donna. Incapace di trovare un equilibrio, diviene improvvisamente rigida e cade da tutte le parti. Una bestia cerca di soccorrerla, impedendo agli altri di sostenere la compagna malata, senza, però, riuscire ad aiutarla. Nell’epopea del microcosmo sociale inscenato, le noccioline e il consequenziale impazzimento delle bestie sembrano una chiara metafora del deserto consumistico, con l’inequivocabile devastazione umana che ne consegue.
Tale metafora sembra essere supportata dalla scena immediatamente successiva, quando sul palco cadono delle scope: con le quali le bestie iniziano a spazzare i gusci delle noccioline accumulati sul palcoscenico. “Spazzare”, nel tentativo di ripulire la comunità dal caos poc’anzi vissuto. Ma lo sforzo è vano, nulla può più redimere l’ordine precedente e allora dalle quinte ricadono violentemente tutti gli elementi comparsi fino a quel momento sulla scena: la tanica d’acqua, il fuoco, la spada, i carillon, le palle, la bambola e tutto il resto. Le bestie impazzano, ognuno con il proprio oggetto. Allegoria del dilagante nichilismo attuale: la comunità rinnega ogni vincolo di omogeneità e si concede alla barbarie.
Nel miasma generale, ecco che dalle quinte sopraggiungono gli ultimi oggetti: un gran numero di vestiti cade a frotte, come pioggia. Le bestie, immobili, guardano gli indumenti che si ammassano sul palco. Non li indossano: voltano le spalle ai vestiti e raggiungono, come all’inizio, il ciglio della scena. Sono davvero nudi, adesso. Nessun gesto convulso cerca di nascondere vulve, seni e peni dietro braccia e mani. La comica epopea della comunità di “bestie di scena” termina con il compimento dell’iniziazione: l’oltrepassamento della rappresentazione mediante l’accettazione della propria essenziale nudità.
Sulla scena, ora, non vi sono né più bestie, né più attori, né più interpreti. Alla nudità essenziale segue la dissoluzione del principio di individuazione: smembrato il soggetto, ciò che resta è qualcosa che è già al di là delle macerie, qualcosa per il quale – probabilmente – non s’intravvede ancora un pubblico al quale mostrarsi.