Dire a una donna, specialmente se si tratta di una signora, che sembra uno sciarabballo è tutt’altro che lusinghiero, anzi, ci permettiamo di sconsigliarvelo vivamente: rischiereste una “solenne bastonatura”, per usare le parole del grande Totò. La città di Napoli, dove attraverso i secoli sono passate genti provenienti da tutto il mondo, conserva i segni di tali passaggi nelle tradizioni, nell’architettura, nella toponomastica e, sopra ogni cosa, nella propria lingua, nei termini che più o meno comunemente sono utilizzati dai partenopei.
‘O sciarabballo è un termine di origine francese proveniente da char a bancs, ossia un carro a panche molto modesto trainato per lo più da asini, qualche volta da cavalli: l’espressione transalpina si è trasformata “nella bocca” dei napoletani, dando vita a un sostantivo nuovo dove, probabilmente, è stata determinate l’influenza del verbo abballà, ossia “ballare”.
‘O sciarabballo era infatti un mezzo di trasporto molto umile, spesso trasandato e sbilenco, usato dalla povera gente dell’entroterra napoletano per recarsi in città sia per commercio, sia per sbrigare propri affari. Data la sua struttura non solida il viaggio era poco confortevole, per cui ‘o sciarabballo dondolava ed oscillava, ovvero abballava, termine usato in Napoletano anche per indicare che un oggetto non è stabile: di un tavolo non ben saldo a terra, per esempio, si dice che abballa. Questo tipo di carro, inoltre, era chiamato da coloro che abitavano in città ‘a cafuniera, perché trasportava appunto i cafoni, i contadini della provincia.
Il motivo per cui, dunque, non bisogna mai dire a una donna che sembra uno sciarabballo è che in questo modo le stiamo dicendo che è sgangherata, deformata, estremamente brutta e grassa, il cui abbondante adipe si muove, trema, abballa quando cammina o si muove.