Le donne e la loro forza. La latente tenacia che si fa viva quando è il caso di lottare, di mettersi in discussione e superare i confini sociali e le capacità personali. Di questo vogliamo parlare.
Napoli è stata tra le prime città italiane a dover affrontare le truppe nazi-fasciste dopo l’armistizio dell’8 settembre, il quale identificava l’Italia come nuova nemica dei tedeschi e non più alleata. La resistenza partenopea è ricordata da tutti come Le quattro giornate di Napoli, durante le quali la popolazione napoletana è insorta dopo anni di disperazione e miseria.
Fu una rivoluzione corale, come narra la pellicola di Nanni Loy del 1962, la quale riscosse ampio consenso dalla critica, poiché riuscì a riportare sullo schermo la stessa drammaticità di quelle scene urbane e belliche, lo stesso realismo di un popolo affamato di riscossa.
Spesso si narra di quelle giornate, degli scugnizzi, dei popolani, delle bombe. Tuttavia sono rari i riferimenti alle vere attrici di quel racconto: le donne.
Donne e femmenielli hanno rappresentato l’anima di quella rivoluzione. Era necessario. Necessario perchè la maggior parte degli uomini erano al fronte (padre e figli) e in città restavano anziani, bambini, donne, ammalati e femminielli.
Gaetana Morgese, figlia di una delle donne protagoniste di quei giorni, scrive:
“Di fatto furono le donne ad iniziare l’insurrezione, e non il 28 di settembre, bensì il 23 settembre, giorno della promulgazione del famigerato editto ‘Sholl’, che obbligava trentamila giovani napoletani alla presentazione spontanea ai centri di reclutamento pena la fucilazione“.
La Morgese racconta come i ragazzi reagirono con amara disperazione alla notizia della nuova partenza e le loro madri non restarono a guardare. Esse nascosero i propri mariti, i propri figli e i propri nipoti dalle truppe tedesche, le quali irrompevano in ogni casa per scovarli. Uno degli aneddoti vuole che una donna si fece trovare ai piedi del letto di un uomo sdraiato e bendato ovunque, facendo credere ai militari nazisti che avevano entrambi contratto la lebbra, a causa della campagna in Africa, a cui prese parte il marito. La donna avanzava verso i tedeschi e loro retrocedevano per timore della patologia, fino a correre giù dalle scale, spingendosi l’uno con l’altro. La donna sul terrazzo nascondeva alcuni ragazzi che stava proteggendo.
“Tutte, proprio tutte in un modo o in un altro parteciparono ai moti“, scrive Gaetana, “solo una cinquantina vennero annoverate come partigiane, una fra le tante, mia madre Maddalena Cerasuolo, spinse l’ardimento fino a combattere per le strade assieme agli uomini. Quei quattro giorni la videro protagonista d’imprese più grandi di lei“.
Nella notte dell’insurrezione tra il 27 e il 28 settembre, la popolazione si alternava frenetica tra le caserme e le abitazioni: le donne in cerca di viveri, gli uomini in cerca di armi. Oltre 2.000 combattenti erano in strada, a vivere una giornata lunga 4 notti. Tra i militanti, assieme alle donne, pronte e audaci, agli intellettuali in pensione, agli anziani e agli scugnizzi, vi erano i femmenielli. Oggi, li avremmo chiamati transessuali, ma all’epoca non si usava tale nomenclatura. Non esisteva la specificità verbale per la differenza. Questi ultimi sono stati i protagonisti delle barricate e, assieme alle donne, della stressante ricerca dei viveri. Infatti, dai racconti dei vecchi attori di quei giorni, emerge che i femmenielli erano impegnati soprattutto nelle barricate di San Giovaniello, un quartiere popolare dove vivevano in alta concentrazione, come più volte ha ribadito, in convegni pubblici e in un documento filmato, l’attuale presidente dell’ANPI Antonio Amoretti, che nel ’43 aveva 16 anni.
Non si ha la certezza circa il numero dei morti di quei giorni, terminati con l’arrivo degli alleati il 1 ottobre alle 9.30, a bordo dei primi carri armati. Tuttavia, le perdite sono state altissime nelle file del popolo combattente: morirono 168 partigiani e 159 inermi cittadini, secondo alcuni autori. Secondo la Commissione ministeriale per il riconoscimento partigiano le vittime furono 155 ma dai registri del Cimitero di Poggioreale risulterebbero 562 morti.
Dopo la rivoluzione, la grinta e la morte, le donne ritornarono al loro posto, “perché è per questo che le donne combattono, per rimettere le cose a posto, non c’è un dopo, non aspirano a riconoscimenti o encomi, passata la bufera ritornano ai fornelli e a crescere figli.”